Il Mondo di Eugenio Tomiolo (E.T.)

Scritti vari


Franco Loi incontra Tomiolo - 1951

1 - Eravamo nel 1951 o 52, quando un grande amico mio, un poeta, che tanto ha dato agli uomini e i cui meriti non sono ancora degnamente riconosciuti, Giulio Trasanna, mi chiese se volevo accompagnarlo nello studio di un pittore veneziano. Mi pare fosse d'inverno, ma non ne sono sicuro, e si trattava di Eugenio Tomiolo, che abitava allora in via Sant'Eufemia, in una casa di ringhiera - due stanze ricavate da tramezze di compensato: una stanza esposta in Santa Sofia, con le pareti tappezzate di millelire fuoricorso e tele e disegni di ogni dimensione, e l'altra, un po' camera da letto e magazzino di quadrerie, chiusa tra uno stretto corridoio,che s'incuneava dalla porta alla stanza di Santa Sofia e il muro divisorio. Una stufa di ghisa nel soggiorno diramava tubature in tutto l'appartamento. Su quella stufa la moglie Ida riscaldava perennemente il pane raffermo, asciugava calzini, preparava mitiche paste e fagioli, ammanniva incredibili piatti dalle magre cibarie inventate su strette economie.

Lo studio del pittore era invece più avanti, verso la piazza Sant'Eufemia, in un localino all'ultimo piano di un recente palazzo. Ricordo che quel giorno stava lavorando a progetti- sulla vita dei campi - contadini, scrofe, cavalli, temi di tanta sua pittura. Subito si entrò in discorso sull'arte. Era una caratteristica di Trasanna cominciare a parlare come avesse smesso dieci minuti prima: riferimenti al Novecento, alle avanguardie, all'espressionismo tedesco, richiami frequenti alle tradizioni venete e toscane. Ma Tomiolo non era uomo da farsi incantare dall'eloquenza; era ben saldo nelle sue esperienze e nei suoi orientamenti, anche quando subiva la momentanea suggestione dell'amicizia e dell'ingegno. Passarono presto a discorrere di scienze, Einstein, la relatività generale, arte e religioni orientali e, infine, non mancando di ironia e di energie giocose, e Trasanna era stato campione di pugilato, fini scherzosamente con un invito di Boxe.

Quando scendemmo, Trasanna mi chiese cosa ne pensavo: ero sconcertato. Per la prima volta sentivo parlare di Lao-Tze e dei Veda, e gli accenni alla Leggenda aurea e a Sant'Agostino mi lasciavano perplesso, infervorato com'ero nell'amore per la scienza. Ero però carico d'una strana allegria e avevo gli occhi colmi di colori luminosi. "Sai è un veneto, si porta dietro le fumisterie religiose dei veneti. Ma è un pittore ai genio. Non ce ne sono tanti come lui in Italia. Se non lo tradisce il tempo, sarà un grande artista...

2 - Non sono più tornato in quello stanzino aggrappato ai tetti di Sant'Eufemia, che del resto lui lasciò quasi subito. Era nel carattere dell'artista prendere e lasciare studi: sognare di possedere un grande studio e poi pentirsene immediatamente e, per motivi sempre diversi - l'affitto, la mancanza di luce, la pigrizia, il freddo o, più semplicemente, la stanchezza del luogo - tornare a dipingere in casa, poi, di nuovo, sognare un'autonomia dalla casa e la luce di uno studio esposto a nord. Anche se più di una volta l'ho sentito affermare che non aveva bisogno di luce, perché la luce di un pittore è interiore e la luce del sole serve soltanto in alcune circostanze. "Si può anche dipingere al buio" diceva per paradosso. "Tutto portiamo dentro di noi... Beethoven faceva musica anche da sordo. Ci mancherebbe che io dovessi stare ai capricci del sole..." Sfrattato dalla casa di Sant'Eufemia, andò in corso ai Porta Romana al tre, poi in via Bobbio; dapprima con studio in via Arena, accanto all'amico Vitale, poi in via Torino, nel palazzo Soncino-Stampa, e questo fu il momento dei grandi teleri e del lavoro intenso sull'acquaforte - si era potuto permettere un piccolo laboratorio d'inchiostratura e stampa, e si costruì anche un torchio per le piccole tirature. Ebbe, poi, per poco tempo, una stanza in una casa di ringhiera in San Gottardo, e infine in San Gottardo al tre lo studio con lo stampatore-editore Vincenzo Alibrandi, uno dei più coraggiosi e raffinati stampatori italiani.

3 - Negli anni cinquanta, la casa di Sant'Eufemia e la trattoria .. del Pomè divennero i nostri luoghi d'incontro. Il Pomè era un simpatico e generoso piccolo mecenate, padrone di una trattoria all'angolo tra Sant'Eufemia e via Lentasio, faceva credito a scrittori, artisti, attori: spesso dava da mangiare per mesi ai pittori, in cambio di qualche quadro o di qualche disegno. Dal Pomè si potevano incontrare Chighine, Kodra, Casarotti, Birolli, Ravasenga, Joppolo, Del Bon, Pancera e tanti altri. Tomiolo, naturalmente, era un frequentatore abituale, e solo verso la metà degli anni cinquanta riuscimmo a trascinarlo verso Brera. Qui, alla Titta o al Giamaica, eravamo certi di trovare Beniamino Dal Fabbro, con l'immancabile bastone dal pomo d'avorio, il cravattino e le interminabili diatribe sulla musica e i cantanti, la Del Bianco, con gli eterni uncini a sferruzzare calzette o davantini che non sembravano finire mai, l'astronomo Masani, che scappava nel bar uscendo dall'Osservatorio e, qualche volta, ci portava da Dal Fabbro per farci ascoltare il violino o le suonate al piano di Chopin, e poi lo scrittore-artista Emilio Tadini, il matematico Buggelli, la pittrice Ramponi, Filippini, e i tanti pittori delle nuove generazioni: Ferroni, Cazzaniga, Leddi, Pasetto, Bernasconi, Francese, Paolini, Basaglia, Petrus, i fratelli Plescan, Velieri...

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