Il Mondo di Eugenio Tomiolo (E.T.)

Scritti vari


Franco Loi incontra Tomiolo - 1951

1 - Eravamo nel 1951 o 52, quando un grande amico mio, un poeta, che tanto ha dato agli uomini e i cui meriti non sono ancora degnamente riconosciuti, Giulio Trasanna, mi chiese se volevo accompagnarlo nello studio di un pittore veneziano. Mi pare fosse d'inverno, ma non ne sono sicuro, e si trattava di Eugenio Tomiolo, che abitava allora in via Sant'Eufemia, in una casa di ringhiera - due stanze ricavate da tramezze di compensato: una stanza esposta in Santa Sofia, con le pareti tappezzate di millelire fuoricorso e tele e disegni di ogni dimensione, e l'altra, un po' camera da letto e magazzino di quadrerie, chiusa tra uno stretto corridoio,che s'incuneava dalla porta alla stanza di Santa Sofia e il muro divisorio. Una stufa di ghisa nel soggiorno diramava tubature in tutto l'appartamento. Su quella stufa la moglie Ida riscaldava perennemente il pane raffermo, asciugava calzini, preparava mitiche paste e fagioli, ammanniva incredibili piatti dalle magre cibarie inventate su strette economie.

Lo studio del pittore era invece più avanti, verso la piazza Sant'Eufemia, in un localino all'ultimo piano di un recente palazzo. Ricordo che quel giorno stava lavorando a progetti- sulla vita dei campi - contadini, scrofe, cavalli, temi di tanta sua pittura. Subito si entrò in discorso sull'arte. Era una caratteristica di Trasanna cominciare a parlare come avesse smesso dieci minuti prima: riferimenti al Novecento, alle avanguardie, all'espressionismo tedesco, richiami frequenti alle tradizioni venete e toscane. Ma Tomiolo non era uomo da farsi incantare dall'eloquenza; era ben saldo nelle sue esperienze e nei suoi orientamenti, anche quando subiva la momentanea suggestione dell'amicizia e dell'ingegno. Passarono presto a discorrere di scienze, Einstein, la relatività generale, arte e religioni orientali e, infine, non mancando di ironia e di energie giocose, e Trasanna era stato campione di pugilato, fini scherzosamente con un invito di Boxe.

Quando scendemmo, Trasanna mi chiese cosa ne pensavo: ero sconcertato. Per la prima volta sentivo parlare di Lao-Tze e dei Veda, e gli accenni alla Leggenda aurea e a Sant'Agostino mi lasciavano perplesso, infervorato com'ero nell'amore per la scienza. Ero però carico d'una strana allegria e avevo gli occhi colmi di colori luminosi. "Sai è un veneto, si porta dietro le fumisterie religiose dei veneti. Ma è un pittore ai genio. Non ce ne sono tanti come lui in Italia. Se non lo tradisce il tempo, sarà un grande artista...

2 - Non sono più tornato in quello stanzino aggrappato ai tetti di Sant'Eufemia, che del resto lui lasciò quasi subito. Era nel carattere dell'artista prendere e lasciare studi: sognare di possedere un grande studio e poi pentirsene immediatamente e, per motivi sempre diversi - l'affitto, la mancanza di luce, la pigrizia, il freddo o, più semplicemente, la stanchezza del luogo - tornare a dipingere in casa, poi, di nuovo, sognare un'autonomia dalla casa e la luce di uno studio esposto a nord. Anche se più di una volta l'ho sentito affermare che non aveva bisogno di luce, perché la luce di un pittore è interiore e la luce del sole serve soltanto in alcune circostanze. "Si può anche dipingere al buio" diceva per paradosso. "Tutto portiamo dentro di noi... Beethoven faceva musica anche da sordo. Ci mancherebbe che io dovessi stare ai capricci del sole..." Sfrattato dalla casa di Sant'Eufemia, andò in corso ai Porta Romana al tre, poi in via Bobbio; dapprima con studio in via Arena, accanto all'amico Vitale, poi in via Torino, nel palazzo Soncino-Stampa, e questo fu il momento dei grandi teleri e del lavoro intenso sull'acquaforte - si era potuto permettere un piccolo laboratorio d'inchiostratura e stampa, e si costruì anche un torchio per le piccole tirature. Ebbe, poi, per poco tempo, una stanza in una casa di ringhiera in San Gottardo, e infine in San Gottardo al tre lo studio con lo stampatore-editore Vincenzo Alibrandi, uno dei più coraggiosi e raffinati stampatori italiani.

3 - Negli anni cinquanta, la casa di Sant'Eufemia e la trattoria .. del Pomè divennero i nostri luoghi d'incontro. Il Pomè era un simpatico e generoso piccolo mecenate, padrone di una trattoria all'angolo tra Sant'Eufemia e via Lentasio, faceva credito a scrittori, artisti, attori: spesso dava da mangiare per mesi ai pittori, in cambio di qualche quadro o di qualche disegno. Dal Pomè si potevano incontrare Chighine, Kodra, Casarotti, Birolli, Ravasenga, Joppolo, Del Bon, Pancera e tanti altri. Tomiolo, naturalmente, era un frequentatore abituale, e solo verso la metà degli anni cinquanta riuscimmo a trascinarlo verso Brera. Qui, alla Titta o al Giamaica, eravamo certi di trovare Beniamino Dal Fabbro, con l'immancabile bastone dal pomo d'avorio, il cravattino e le interminabili diatribe sulla musica e i cantanti, la Del Bianco, con gli eterni uncini a sferruzzare calzette o davantini che non sembravano finire mai, l'astronomo Masani, che scappava nel bar uscendo dall'Osservatorio e, qualche volta, ci portava da Dal Fabbro per farci ascoltare il violino o le suonate al piano di Chopin, e poi lo scrittore-artista Emilio Tadini, il matematico Buggelli, la pittrice Ramponi, Filippini, e i tanti pittori delle nuove generazioni: Ferroni, Cazzaniga, Leddi, Pasetto, Bernasconi, Francese, Paolini, Basaglia, Petrus, i fratelli Plescan, Velieri...

Oltre il Pomè, anche il Fiorino in Fiori Chiari passava minestre per qualche quadro o qualche incisione. Erano anni di fame e di grandi entusiasmi, in una Milano meno ricca ma certo più generosa e accogliente. Non mi dilungo su questi nomi e su questi ambienti per dare riferimenti colti o per pura associazione mnemonica, ma per ricostruire dentro di me l'atmosfera di quei giorni, far rivivere le persone, rievocare un'epoca di grandi scambi culturali e di umana solidarietà, e anche per riallacciare i tanti fili delle nostre vite all'arte e alla poesia di Tomiolo.

4 - A quel tempo, o poco dopo, verso il 1953, nacque il progetto della barca. Tomiolo, nato a Venezia, aveva fatto della sua città un mito che lo ha accompagnato per tutta la vita. Nessuna retorica. Poiché Tomiolo ha sempre avuto chiaro il senso della decadenza di Venezia. Certamente, un legame stretto con le tradizioni, con la storia, con la bellezza di quella singolare città fondata sulle acque.

A Venezia, ancora bambino, lo stupefacente incontro con l'Assunta del Tiziano ai Frari. Suo padre, durante il tragitto, gli aveva mostrato alle Zattere una gondola verniciata di bianco sul verdegrigio dell'acqua e gli aveva poi detto che anche Tiziano aveva usato tanto rosso per ottenere da lontano l'effetto di quella Madonna levata tra le nuvole. "Vedi, ragazzo mio, i colori non sono come li vedi, ma come devono essere su un quadro". E a Venezia aveva imparato nella bottega del maestro Bellotto come si lavora un ferro incandescente e come si trae forma dalla pietra inerte. soprattutto aveva goduto la libertà dei canali e della laguna.

E ancora Venezia gli si impresse nel cuore, quando, suo padre, dopo un'aggressione subita dai fascisti al Ponte delle Guglie, fu costretto ad abbandonarla in modo avventuroso: caricò le masserizie di casa su una grande barca e, dopo aver risalito dalla laguna il Brenta e l'Adige, portò la famiglia a Legnago, che da allora fu la nuova patria di Tomiolo. Quella "fuga epica" diede al giovane pittore immagini di vasti cieli tiepoleschi, di bianche ville palladiane nel verde delle campagne, di acque dorate in cui si perdeva la città dell'infanzia.

Era inevitabile il sogno del ritorno. L'artista pensò sempre di riapprodare a Venezia dal mare, su una trionfale barca. Si mischiava a questo sogno anche quello di un viaggio attorno all'Italia, nel Mediterraneo - un'utopia ulisside che mirava a fare della barca una casa.

Un giorno, parlandone con Trasanna - si camminava in piazza Duomo, sotto l'Arengario - nacque il progetto concreto, dapprima coinvolti lo stesso Trasanna, il pittore Basaglia e un gruppo di attori, tra i quali Carlo Hinterman, Ma poi Tomiolo si avventurò da solo nella non facile impresa. Stabilì il cantiere a Riva Trigoso, e, con l'aiuto un maestro carpentiere, lavorò per anni alla costruzione di una "nave" di quindici metri.

Andai anch'io a Riva, quando la barca fu quasi finita, e ne fui affascinato. Era un alto scafo con una polena scolpita a prua, un San Giuseppe fatto dallo stesso Tomiolo, e un alto albero che oscillava al vento. Poi il pittore la dipinse tutta di rosa - un colore della speranza - e preparò tutte le suppellettili in legno, dai letti, al tavolo e le panche. Ma, appena l'opera fu finita, mancarono i soldi per il motore e per mettere la barca in mare. Dopo sette o otto anni di lavoro, e di vita, la barca fu venduta. La videro due giovani di passaggio a Riva e se ne innamorarono. La comprarono a rate.

5 - Certo non finì il sogno della barca. L'artista progettò altre barche e disse più volte che presto ne avrebbe messo in mare un'altra, ma questa volta dalle parti di Chioggia, tra la gente del suo Adriatico. Non l'ha mai fatto. Ha dipinto, disegnato, costruito modelli di barche per tutta la vita. Due anni fa lo consigliammo di preparare una mostra dei suoi fantasiosi modelli - giunche cinesi, onerarie fenicie, navi persiane, bragozzi e peatte veneziane - ed esporre anche il suo lavoro d'arte attorno al tema. Ma Tomiolo ha sempre preferito progettare e lavorare che realizzare mostre o iniziative di promozione. Anche perché io credo che la barca, come ogni altro intento pratico, si sia avviato in lui come il sogno di una forma. Giacché nessuno come lui, in questo nostro tempo di pragmatisti ed esibizionisti, si è adoperato, in ogni momento e in ogni iniziativa, all'utopia della bellezza.

Persino l'amore diventa, in Tomiolo, un sogno d'artista, si trasforma in desiderio di perfezione formale. Egli ha sempre affrontato la realtà, non tanto per carpirne l'immagine formale, quanto la sostanza formante, l'energia-luce che dà vita e forma alle cose. Per l'artista, la realtà è, si, ciò che si vede e si tocca - pochi sono realisti come lui, ma in quanto forme, "stati transitori di forze", la cui essenza è lo scopo di ogni sua ricerca. Chi conosce la sua pittura sa che è incessante l'approfondimento sulle materie, sulle forme delle cose, sui valori delle luci e delle ombre, e, insieme, sul pensiero che ne abbiamo - soltanto in questa direzione si può accostare il suo lavoro a quello delle avanguardie del '900, che, del resto, in questi ultimi cinquant'anni hanno fatto solo dell'accademia neoclassica.

La sua distanza dagli sperimentalisti astratti e surreali o dai ritorni neorealisti è fondata su una solida convinzione teorica: la natura contiene l'invisibile, le forme sono sacre, espressione necessaria della sostanza che crea. Non si possono negare il surreale o l'astratto, ma sono racchiusi nelle forme - sono intellettualismi le teorie.

Tomiolo ha sempre detto: "La mela di Cezanne non è solo un fatto geometrico. Ha polpa, profumo, sostanza, luce... È una mela. Noi non dipingiamo un'idea, ma una cosa... Perché viviamo tra le cose. I nostri sensi sono catturati da forme che non hanno bisogno delle nostre invenzioni per dirci l'infinità delle immagini, delle soluzioni..." E nel dir questo, sembra rammentare Dostoevskij, quando scrive, a proposito, non ricordo se dell'Idiota o dei Karamazov che per lui "si tratta sempre del solito, unico romanzo della sua vita" o, nel Giocatore, contro "l'esprit de geometrie dei neoclassici. Esprime semplicemente una solida concretezza, e una prolungata esperienza tra gli uomini e le cose, una illimitata libertà.

6 - Ci sono tuttavia aspetti della personalità dell'artista che è forse più utile ricordare attraverso la compagna della sua vita. Ida era una donna intelligente, tenace, coraggiosa. Nei momenti di spensieratezza, usava rammentare con molta ironia "i giorni di Roma", quando Tomiolo, che da qualche mese le scriveva delle sue esperienze nella Roma di Scipione e Mafai, l'aveva invitata a raggiungerlo per sposarlo. "Contro il parere dei miei, lascio il paese e arrivo tutta eccitata alla stazione di Roma. Lui è lì con una carrozza. Mi fa salire, mi porta in giro per Roma e infine mi fa scendere in piazza di Spagna. Lui salta giù, va da un fioraio, uno dei tanti della scalinata di Trinità dei Monti, prende una rosa e me la offre, gridando: "Benvenuta a Roma! - Poi mi tira in disparte e mi sussurra che bisogna pagare la carrozza e il fiorista, ché lui non ha una lira. La sera mi porta al Pincio. Siamo seduti su una panchina, ormai fa buio e comincia a piovere. Allora gli chiedo di portarmi a casa. Lui risponde tranquillo che non ha una casa, che dorme sulle panchine del Pincio: cosi si comincia l'odissea per le strade piovose in cerca d'un riparo a poco prezzo. Quello fu il giorno del mio fidanzamento".

Ida è stata una vera donna d'artista. Aveva anche sensibilità pittorica, dipingeva vasi di fiori e nature morte - spesso Tomiolo diceva che un pittore in famiglia era sufficiente, ma apprezzava la qualità di quei quadri. E Ida sacrificò forse quel suo talento alle tante necessità della casa e all'ammirazione per il marito. Sempre intenta al lavoro, rispettosa persino degli ozi del compagno, ma pronta a spronarlo, a creargli condizioni per dipingere, riusciva a racimolare un pranzo da croste di pane, insalate matte, farina di castagne o di ceci, un pugno di riso. Non sono mancati certo gli screzi e i grandi diverbi, ma nei momenti più difficili sapeva risparmiare soldi per i colori, le tele, le matite, le lastre di zinco o di rame.

In tempi d'industria e successi di mercato, Tomiolo si è sempre dedicato all'arte e alla ricerca. "Il tempo è mio, non degli altri" diceva. "E l'arte ha un tempo. Guai a tradirlo. " E anche: "Io non sono un pittore. Mi servo della pittura. ,E' l'unico modo di capire e di avvicinarmi alle cose - Non amo la pittura, la faccio". Non è un caso che gli acquirenti dei suoi quadri siano stati sempre professionisti, medi industriali colti, artigiani, scrittori e poeti. Si può intuire il ruolo di una donna come Ida nelle difficoltà che una simile libertà comportava.

7 - Una diversa ottica da cui guardare alla sua personalità e forse trarne qualche indicazione d'arte è l'esperienza. Non si può indurre dalla vita una qualsiasi motivazione artistica, ma è certo che la vita lascia il segno sull'arte o corrisponde a un certo tipo di artista.

Era bambino, nella corte del Macello pubblico di San Giobbe in Cannaregio, dove il padre era veterinario e direttore del mattatoio, quando vide a una finestra il genitore additare, in alto, tra le nuvole, un grande aereo austriaco. Quella fusoliera grigia con le ali spalancate tra le nubi rosa è rimasta un simbolo nella memoria dell'artista: la guerra e la vita militare saranno per lunghi anni un destino. Sul finire degli anni '30 sarà mandato a far la guerra nel deserto della Cirenaica, poi sarà richiamato nella grande guerra: nove-dieci anni di divisa. Ancora una volta, saprà opporre agli avvenimenti la sua capacità di interpretare l'azione nel momento stesso del suo svolgersi, l'attitudine alla contemplazione.

A Bassano Teverina, nel settembre del '43, la fuga di monarchi e generali lo costringe, lui, semplice sergente maggiore, ad assumersi la responsabilità di portare in salvo i suoi uomini. Dopo aver affondato le barche in dotazione al suo reggimento - Tomiolo era nel genio pontieri - servendosi di un barchetto, discende il Tevere in direzione di Orte. Una grande paura prende tutti gli uomini, quando la barca passa sotto un ponte presidiato da un cannone e parecchi fucilieri tedeschi - nessuno osa voltarsi né lasciare i remi per non tradirsi. Sono attimi interminabili, sia quando vedono il cannone volto verso di loro sul fiume, sia quando lasciano il ponte alle spalle. Ma non succede niente. A Orte Tomiolo fa sbarcare i suoi uomini, li porta alla stazione e poi li la salire su un merci diretto al Nord.

A Ferrara li aspettano però i tedeschi: hanno circondato la stazione e catturano tutti i soldati italiani. Qui la capacità di far fronte agli imprevisti, di non lasciarsi travolgere dalle emozioni, di guardare la realtà nel momento stesso dell'agire si rivela importante: catturato dai tedeschi, è sospinto con altri prigionieri verso i carri bestiame diretti in Germania. Un ferroviere, che sta lavorando su una locomotiva, gli strizza l'occhio e rapidamente gli lancia uno spuntone di ferro: è un attimo, Tomiolo lo afferra al volo e lo ficca sotto la giacca di soldato.

Nel vagone piombato, ormai in viaggio verso il Brennero, raduna i compagni e dice : "Poco lontano da Verona, vicino a Castagnaro, la ferrovia fa un'ampia curva e il treno, per un leggero pendio, dovrà rallentare. Chi se la sente di scappare con me?" Con lo spuntone, schioda le assi dal pavimento: lo spazio sufficiente per far passare un uomo. Bisogna calarsi tra le rotaie e lasciare che il treno passi, poi sperare che sull'ultimo vagone non ci sia qualche tedesco di guardia. C'è il pericolo di una sventagliata di mitra o di una bomba a mano. Soltanto tre dei compagni decidono di tentare la sorte.

Al rallentare del treno, scendono, prima Tomiolo, poi gli altri tre. Tomiolo rimane rannicchiato tra le pietre, sulle traversine. E' una sera senza luna. Quando tutto il treno è passato c'è l'angoscia dell'ultimo vagone. Ma tutto è silenzio. Si sente soltanto il rumore dei carri bestiame che si allontanano nel buio e, ogni tanto, un crepitio di mitra. Si lascia scivolare lungo la scarpata, poi chiama i compagni col verso dell'allodola. Breve conciliabolo: è pericoloso stare insieme, ognuno per suo conto tenti la via di casa.

Quando Tomiolo arriva alla cascina di sua sorella - una meravigliosa cascina piena di rose, tra boschetti di pioppi, riserve di lepri e fagiani, e un grande granaio dove l'artista ha lavorato per anni - l'accoglie l'abbaiare dei cani, poi, ai richiami, si apre una finestra e compare Ida.

La guerra non è finita. Ci sono gli odi di parte, le scorrerie partigiane, le fucilazioni fasciste, i rastrellamenti tedeschi: Tomiolo sarà coinvolto anche nella guerra della Bassa. Nei disegni e nelle incisioni di quel tempo sono rappresentate le atrocità e le angosce della guerra. Soltanto nel 1946 Tomiolo lascerà Legnago per venire definitivamente a Milano.

8 - Dover parlare di questo artista negli schemi di alcuni aneddoti e nella ristretta aridità delle parole, lascia forse sfuggire la parte più significativa di questa personalità. Tomiolo è stato ed è artista anche nel vivere: la sua è una creatività aperta all'esperienza, non ha preconcetti né pretende soluzioni formali. Quando ho detto che è incessante in lui la tendenza alla forma, forse non ho chiarito a sufficienza che non si tratta di "dare una forma" o di "trovarla", ma aprirsi alle possibilità, offrirsi al "farsi della forma". Egli si innamora delle parole come della luce: la sua è una posizione di attesa: che le parole e la luce gli si manifestino. Quando scrive "cassa me piasarìa far na poesia/ lisiera che restasse su par l'aria ", non pretende di fare una poesia ma chiede gli sia data la possibilità di intuirne la forma.

Anche quando parla, ascolta il suo stesso dire e le possibilità formali che le parole gli aprono; casi, nel dipingere, coglie quanto spazio e luce gli offrono: le immagini nascono dal rapporto interiore con gli elementi del fare.

Quando il Tessa afferma che la creatività del "parlar popolare" consiste nell'attenzione ai suoni più che ai contenuti, e aggiunge che "tutto è musica nella sincera espressione popolaresca", dice qualcosa di molto vicino al modo di parlare e dipingere di Tomiolo. Chi l'ha conosciuto, sa che il dialogo con lui, imprevedibile e sempre geniale, scaturisce dal rapporto e non dall'intellettualità. Lettore di filosofie e religioni, non è mai stato sommerso da alcun dogma e da ideologie alla moda. Non per niente il suo vero interlocutore è sempre stato Chuang-Tze, il filosofo dei paradossi. La grande lezione di Tomiolo non è moralistica né estetica.

Ricordo che nel '57, quando, innamorato di quella che oggi è mia moglie, non osando dichiararmi, mi confidai con lui - eravamo in un caffé all'angolo tra corso Italia e via Crocefisso - mi disse: "Diglielo. In amore, come in ogni cosa della vita, conta ciò che si fa. Si, le idee, i sogni, il romanticismo... Non credere che l'amore platonico sia creatore in arte - Freud ha sbagliato tutto su repressione e cultura... Una cosa non c'è, se non è fatta. Certo, l'orgoglio. Ma superare l'orgoglio è indispensabile per diventare uomini. Al massimo ti dirà di no. Ti sembrerà che crolli il mondo. Ma un uomo nuovo e un nuovo mondo rinascono sempre dalle macerie... Se tu non agisci, lo farà un altro. Stare a guardare è peggio che fare...".

E questo discorso sul fare l'ho sentito più volte ripetere, anche da un punto di vista artistico. "Non importa che un quadro sia bello, è importante che ci sia. Le estetiche mutano, ma la cosa rimane. Il concetto di vero mi piace più del concetto di bello. Lavorare è cosa più importante che studiare - nel lavoro ci si forma e si dà forma. Tutto ciò che ho imparato, l'ho scoperta attraverso il lavoro".

9 - Se si vogliono affrontare gli aspetti sociali della personalità di Tomiolo, bisogna parlare del presepio per la Chiesetta di Borca di Cadore, poi finito all'Eni di Metanopoli, e degli affreschi di Arcumeggia. Giacché in queste opere, fatte su ordinazione, e concepite per luoghi pubblici, si riassume la socialità primaria dell'arte e il senso stesso del suo fare inteso come atto che si compie in una comunità. Il presepio fu concepito come un grande evento della natura: "Ciò che avviene nella notte di Natale investe tutto il cosmo, uomini, cose, natura, infinito... E nello stesso tempo è un rito tra gli uomini". Cosi i diversi ordini di statue - pastori, soldati, artigiani, cammellieri, donne, ecc. - debbono corrispondere a categorie, che attraversino l'ordine cosmico.

Abbiamo i soldati chiusi nelle corazze come tartarughe, i pastori simili a pecore, gli angeli simili a eventi del cielo, le donne madri di creature o raccolte nella pietà tra le cose... Tutto in legno, compresi capanna e montagne, perché il legno è una materia viva e del legno era fatta la croce e di legno sono fatte le bare e di legno sono gli alberi. Della grande tradizione, conservava soltanto il principio della lavorazione, scultorea; l'immagine era invece ricca di nuovi significati religiosi e artistici.

L'accettazione di preparare un fresco per il paese di Arcumeggia, nel varesotto, rientrava invece nelle magistrali esperienze che Tomiolo aveva già compiuto a Legnago e a Padova. Siamo nel cuore della sua arte, del suo concetto medievale di arte e di artista - ha sempre accettato anche di dipingere soffitti, e a Milano in casa della famiglia Lazzaroni, in via Manzoni, ce n'è un geniale esempio. "Se si deve fare il pittore, è meglio farlo sui muri o su grandi tele che in quadretti per paretine borghesi..." "La pittura è un mezzo, non un fine... Se si deve far pittura, allora mi piace di più farla per un pubblico vasto... Il narrar storie allegoriche, creare allegorie è forse il momento più alto dell'arte...".

10. Un grande suo progetto, sottilmente legato al "sogno degli affreschi", è la "cena con gli amici", un grande telero o parete su cui raccogliere, attorno a una tavola imbandita, le persone care della vita. Il cibo e la cena con gli amici fanno parte della vita come dell'arte di Tomiolo. La "cena" è certo uno dei progetti formali a cui l'artista ha dedicato tanta parte di sé. Ha fatto quadri, disegni di tavolate, acqueforti, e, come abbiamo accennato, colossali imbandigioni con gli amici. Ma non gli è mai riuscito di realizzare la "grande cena", alla maniera di un. Veronese. Sembrerebbe una contraddizione: perché non mettersi a dipingere, invece di sognare? Ma, appunto, mentre sogna, l'artista continua a lavorare, a dipingere. Basta scorrere i suoi cataloghi: la "cena" è tra molti dei suoi temi cittadini o contadini. Ma è la "forma ultima" che Tomiolo vorrebbe realizzare, come un evento insieme artistico ed esistenziale. Cogliere nello stesso tempo l'energia che può dare vita a un'immagine e significato ed eternità alle tante cene vissute con gli amici, un luogo e un evento in cui, non solo la pittura, ma la vita e la presenza delle persone amate dovrebbero entrare a consumare un rito.

Non sfugge all' artista la tradizione religiosa - ne conosce i termini sacri ed esoterici. Ma non si può comprendere a fondo Tomiolo, se non si valuta il suo modo di essere religioso. Goethe ha lasciato scritto che "chi ha l'arte e la scienza ha pure religione, e chi non ha arte né scienza abbia almeno religione". Tomiolo rammenta che non c'è né arte né" scienza là dove non c'è religione. Ma il suo Dio è molto vicino a quello presentito da Lao-Tze: "Il Tao che è detto Tao / non è l'eterno Tao;/ il nome che è nominato / non è l'eterno nome": un'idea profonda del senso criptico e della sacralità della creazione, ma un senso altrettanto sacro del ruolo dell'uomo nell'operare di un qualsiasi dio. Eckart non è passato invano nella storia di Tomiolo. Entro e davanti alla potenza del dio ignoto, c'è tutta la sofferenza delle creature e la ricchezza dell'esperienza umana. D'accordo con Barth, sembra dire che "è idolatria volere che Dio corrisponda alla nostra ragione" ma, con Giobbe, sembra gridare per le ingiustizie della terra. "Pitor xe omo spinà da vision che se la sùa a tor de volta al vento": il suo Dio non ha nome, né concetto, né forma, se non nelle forme stesse della natura. Ma la sua presenza la sente altrettanto efficace e certa dell'energia e della luce che danno forma alle creature. L'artista ascolta, attende, fa. "El no saver no me turba": questa sua frase è un ritratto molto più efficace di ogni racconto. Non è con la conoscenza, ma con la coscienza che ci presentiamo al gran dono della vita.

Franco Loi

Milano 12 febbraio 1990


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