Il Mondo di Eugenio Tomiolo (E.T.)

Opere Pittoriche

.: Monografia Riello :.

(1967)

Con chi?
di Franco Loi

Essere la verità e la vita. Ecco una contraddizione che ci invita come un salto nell'abisso. Per un artista la cosa non è così semplice come ordinariamente si crede. Non c'è antitesi fra l'artista e l'uomo, se è questo che si vuole suggerire: provate a raggiungere una misura nell'operare. E' semplice e difficile, si trema dinanzi all'azzardo di toccare e muovere: dice Tomiolo «dipingere con agevolezza», come dire liberare dentro di sé i legamenti che impediscono d'essere abbracciati dalla delicatezza della contraddizione. É necessario vestire di naturalezza la verità che vive, dargli la concretezza della creatura. E si stabilisce che l'artista gioca! Con chi? É come la fragilità di un sorriso: è molto più facile sconvolgere dentro di sé la bestia che dorme e farla trionfare nel riso o nel pianto: la pericolosi!!. di un sorriso: Ecco che bisogna, non coltivare un'immagine, non gioire della scoperta, ma precisare la scala, tentare di concretare l'esatta rispondenza dell'uomo al suo sogno: non decorare ma dare l'esatta misura dell'immagine mentale. Sapere che si mette un nero, e dentro, proprio nella dialettica del cittadino, del socio, del fratello, oltre l'ovvia del pittore, dentro nella fisionomia dell' uomo si sposta un rapporto: un nero messo su tela non può essere cancellato e non può essere corretto - qui si parla della pretesa di tornare a zero, di giocare appunto con dadi che eludono la tangibilità di un gesto - si muta ancora un rapporto: è questa sacralità della misura che dà le vertigini e frena la lucidità del dipingere: mettete un nero sulla tela! Quanta matematica e quanta ubriacatura d'infinito! E' necessario perdersi nei sogni e riconoscer si e rimanere come sospesi, a lungo dubbiosi e temerari, ma è doveroso faticare sui numeri, faticare sulle materie, fare come uno che conducono alla morte e impreca contro gli stradini che non hanno ben selciato la strada e si attarda ad allacciare una scarpa e suggerisce agli esecutori di oliare bene le armi che non s'inceppino: correre incontro ai sogni e fermarsi e considerarli e rallentare la corsa, sfuggire in un certo senso, rimandare e correre e correre, e arrivare quasi trafelato e però paziente a osare il gesto: mettere un nero come un coltello, come una . decisione molto importante per ognuno di voi, quella che non confidate e compite con leggerezza come un tradimento: mettete un nero sulla tela! I professori si applicano ai meccanismi e sanno confondere l'uomo: basta così poco per iscrivere un artista nella storia degli uomini! Ma essere un professore che si confonde, ma guardarsi mentre ci si confonde e nello smarrimento agire: non è facile, non è più come un gioco. Nell'operare c'è qualcosa di più temibile di qualsiasi schema, si intravede la sconosciuta libertà di un fanciullo.

E così, se appena appena ce ne ricordiamo, fa paura il generico che monta spesso nel desiderio di illustrare un artista e il suo mestiere, un artista che ogni giorno azzarda e si rinnova e invecchia, e si slega dal ruolo abituale di sé, per subito precipitare nella contraddizione, nel nido caldo e sopportabile di una meta raggiunta, di un risultato, di una memoria di nuovo perduta, e di nuovo tremante nel pericolarsi, di un professionista che si trasforma nell'esercitazione stessa del proprio egoico mestiere. Non un'epica, intendiamoci per chi può essere distratto dal successo o dall'insuccesso di un uomo e della sua opera, ma qualcosa che infine può esaltare o soddisfare, ma una fedeltà appunto irragionevole all'arte e alla comunicazione, un pazzo giocare, qui sì, qui eludersi e compiacersi, con valori perduti e intuizioni precarie, ma accanimento nel portare ordine e scoprire misura, eticità, nel caos sempre nuovo di una vita sociale priva di centro e di argini. Ecco, Tomiolo evoca facilmente una delle molteplici figure che il vocabolario dell'illusione contemporanea può aver la pretesa di fornire: l'uomo solo, la sotterranea resistenza, la fedeltà piccolo borghese agli ideali e al fare, la consolatoria immagine del Van Gogh misconosciuto e nobile. Ma Tomiolo non ha ideali e non ha sentimentalismo da offrire o da alimentare: non si compiace nemmeno di fare il pittore: si pericola nel mettere un nero.

Nato nel 1911, appartiene ad una generazione che ha corso quasi tutta l'avventura dell'intellettualismo europeo - si vuole dire la testimonianza di un centinaio di artisti e qualche decina di scrittori e poeti, tanto per non cadere nella retorica di un nostro preteso «retaggio» e di una «civiltà» alla quale tutti un po' avremmo partecipato - ha dunque fatto parte oscura di questa testimonianza nella condizione più rischiosa, quella del discepolo e dello spettatore. Eppure forse in virtù di una tradizione e di un istinto, forse di un suo particolare vigore popolare ha saputo rimanere latino e attico sotto l'asianismo imperante.

La sua originalità è dipingere il pensiero che ha del mondo con la modestia di aderire al mondo. Intuisce una vita interna alle forme e una loro partecipazione cosmica ma non può ignorare il senso della loro singola apparenza: le cose non sfuggono alla loro forma. Un pesce è un pesce, una faccia una faccia, un cavallo un cavallo. La prigionia degli esseri è sì di linee e di colori, ma composti in un ordine, costretti ad un destino. Tomiolo pensa che scoprire una forma sia molto più che aderire ad una sua idea o alla sensazione che se ne ha o a qualsiasi altra vaga intuizione di rapporti.

Non è difficile convenire che l'errore, o almeno la maniera, divengano abitudini dell'occhio diffuse e perpetuate, generando ripetuti errori e maniere. Ricorrenti filosofie hanno insinuato immagini del mondo come apparenza ed hanno messo in guardia contro le comode convenzioni. Sembra che l'intelletto umano oggi si scandalizzi di un albero che interrompe il cammino. Ma se l'occhio e la mente potranno ridursi a vedere soltanto l'apparenza di un oggetto, saremo più certi che «sulla strada incontriamo il tronco di un albero».

Tomiolo parte dalla convinzione di avere davanti all'occhio la consistenza di un tronco d'albero. E questo tipo di consenso al reale lo applica all'artigianato con la forma mentis del ricercatore. Non s'arresta davanti a ciò che sorprende l'occhio, o agita la mente, o trascina i sensi, o turba il sentimento. Lo stupisce la coesistenza dell'oggetto e si prepara a trasferire con l'arte questa doppia e unitaria vitalità: l'uomo e il mondo, uno e due insieme, forme che partecipano di un medesimo destino e però si confrontano in strutture diverse: sono contrari che si fondono, tuttavia espressi nella loro diversità. Tomiolo si è sempre esposto alla difficoltà di un quadro con la concretezza dell'uomo di scienza dinanzi al mistero della natura. L'ha sperimentata con la forza del suo sentimento e il bisogno di chiarezza del suo pensiero.

La malattia del culturalismo ha trovato nell'umiltà del pittore il suo più efficace antidoto. Un suo quadro non ha mai voluto essere «una visione del mondo», un «dopo Cezanne», una «angoscia alla Kandynsky» o una «favola alla Chagall», ma nello studio e il rispetto di quei pittori tutti, la pazienza ricorrente e ogni volta faticosamente ricominciata «dal di fuori», di scoprire un quadro. Si può in questo senso capire il popolarismo della sua pittura: ,un residuo di buon senso comune nella fiducia di «guardare il mondo in sé», di applicarsi alla ricerca di leggi, di evocare l'incanto di un rapporto in tutte le sue potenze, di intuire l'intimo ordine che regge le forme e le fa stare a sé come fossero divise.

Oh, ecco come ci si accosta al reale! Un albero è come una manciata di coriandoli e tutte quelle leggerezze colorate che l'aria accoglie e l'occhio vorrebbe seguire e l'uomo intrigare possedendo e conoscendo, e le memorie, e le ansie di futuro, e i profumi, i rumori, il caldo sfumare dei toni, e il disegno di quei legni e di quelle morbidezze, e ciò che dentro di noi risvegliano e noi risvegliati da altro portiamo all'incontro come una ondata di frequenze, e anche la malinconia del nostro essere femmina e l'ironia del nostro essere maschio: e dietro c'è il cielo e il cielo è dentro l'albero e dentro la manciata di pezzi di anima colorata, e sotto c'è la terra e anche la terra dentro l'albero e nel cuore di ogni profumo e rumore e memoria e tenerezza in noi e fuori di noi, e tra gli alberi c'è l'aria e l'aria è anche in noi e tra noi e tutto avvolge e ovatta di silenzio e di partecipazione: ma è un albero, è la rigida sagoma che la scienza si prova a tentare e creare, è una realtà vivente che come in sogno incontriamo. Così le immagini del pittore vogliono essere libere di fantasia e però ordinate nel comune linguaggio, scoperte nella loro forma popolare.

Non ha maniera perchè è un poeta: ama l'arte come la vita. Non si pone alla ricerca di un modo, ma alla sperimentazione di un fare. Qui forse è la ragione del suo sapere professionale, della sua ricettività formale, del suo istinto pittorico: una tela può anche diventare ogni volta un quadro. C'è coscienza della stanchezza, rispetto delle forme intuite, sapienza nel mestiere, fede nella libertà e mutevolezza delle condizioni. «Se il mondo stesse fermo ad aspettarmi, avrei in pugno la formula per acchiapparlo»: l'uomo sa di sé quanto basta per rispettare le leggi del mondo.

La sua filosofia è complicata quanto è semplice l'intuizione che ha dell'universo, l'uomo è ardito quanto l'artista: panteismo, misticismo, idee che vogliono penetrare e comprendere: un senso orizzontale e uno verticale, geometrie curve alla luce di un amore solare. Le figurazioni che Tomiolo sa darsi della favola umana non sono solo suggestive e cariche di pathos, hanno l'autonomia della vita. Il suo disegno rivela questi aspetti più apertamente della pittura. Ciò che è intimo, contenuto, ordinato sulla tela, esplode nella narrazione popolaristica delle stampe, delle incisioni, le litografie, i disegni: Tomiolo si accosta all'infuocata fantasia dell'universo. Se si vogliono fare delle analogie letterarie, vengono Ovidio e Campanella, due maghi della fluidità e intima simpatia delle forme, che il pensiero razionale soccorre con le algebre di un Einstein.

Nella storia di Tomiolo ricorre un'immagine-simbolo: una larga barca nella torbida calda acqua del fiume Adige. è la barca del padre. Che nel 1927 abbandona Venezia e risale il Brenta e l'Adige sino all'ansa dolce di Castagnaro. Aristide Tomiolo era un medico veterinario, colto e letterato, un uomo di professione e di fantasia. Direttore del mattatoio provinciale di Venezia, cittadino probo e stimato, era padre e marito responsabile ma uomo ricco di immaginazione e di slanci e speranze poetiche, forse più dei figli, curioso di ignoto e saggio di esperienze. Decise di lasciare Venezia con la consapevolezza di chiudere un periodo e offrirsi a un tempo nuovo, sotto un cielo diverso: a Legnago dovrà crescere i figli, riadattare il mestiere, riesercitare una autorità. La memoria di Eugenio riacquista al padre la dimensione epica di quell'esodo e la risveglia nel proprio sangue, la fa maturare ad immagine-idea di una vita e di una vocazione.

La barca tornerà nel vivere e nell'operare di Tomiolo come l'eredità di un destino veneziano. Il pittore costruirà barche, le dipingerà, le inventerà, le sognerà spesso, coinvolgendo nel sogno le vicende degli amici, il lavoro di uomini sconosciuti, le personali fatiche e fantasie e affetti. Nella sua pittura il mare e la calda etrusca speranza della terra sono due motivi base. Forse in questa concordanza fra «l'in sé» e «il fuori di sé» è il segreto della sua intuizione delle più intime simpatie formali. Tomiolo dipinge ciò che vorrebbe respirare, ciò che i padri hanno vissuto e lavorato, ciò che le generazioni precedenti hanno a loro volta dipinto e penetrato con la fatica e con l'amore; dipinge ciò che la sua storia e la sua società hanno acquisito nel diritto e nel sapere: un «suo» mare è la laguna della Repubblica di Venezia e dei pittori veneziani e dei fabbricatori di galee e dei navigatori: è il paesaggio che secoli di sapienza pittorica e di sapienza sociale hanno espresso nell'amore di guardare e dire di un loro figlio vivente. Questo senso di continuità trova il suo analogo nei dipinti dell'Adige: i casolari caldi di tramonto, gli animali di caccia o di cortile, i porcili, le stalle, i villani nelle aie. Quella barca paterna ha risalito i fiumi ripetendo un costume, riportando tutta la follia d'una gente marinara alla misura e all'ordine del contado, ristabilendo nel cuore di una generazione e nel sangue degli individui il cerchio chiuso di una comune vicenda.

Forse da questo senso di continuità viene un altro aspetto della singolarità di Tomiolo: la paura della morte, così diffusa e così profonda nel mondo contemporaneo, non ha dimensione in lui. L'uomo è troppo intento a vivere per concepire la morte nella sua amarezza leopardiana. Come molti dei suoi ritratti e dei suoi paesaggi è irriverentemente pieno di salute e di dionisiaca eternità. Si guardino i quadri di argomento tragico: gli impiccati delle stampe sembrano forme gioiose, i Cristi hanno l'occhio irridente o il corpo d'ubriachi riversi, i fucilati non partecipano la morte nella beata serenità della natura ma un'estatica attesa. Il senso che il pittore ha della vita è tutto illuminato dalla lirica intensità dei colori: non traspare che un'unica intima gioia di essere.

«Ci sono troppe cose fra il cielo e la terra che l'uomo non conosce», la contemplazione dell' infinito non meno razionale della pratica del finito. L'artista popola i quadri della sua fede in un universo senza spezzature, senza disordini, il sogno di un'armonia priva di dolore, mutevole ma eterna, giocosa nell'enigma della bellezza, infinitamente ricca di vita che si ricrea.

Un quadro è significativo nella biografia di Tomiolo, «I cavalli» esposti alla Colonna nel '54. Sono cavalli da tiro che aveva disegnato e studiato per mesi allo Scalo merci di Milano Farini. In tutto il quadro c'è quell'aria di grossolana irrisione, di popolana salute, che è una delle caratteristiche del pittore. I cavalli, composti in una pausa del loro gramo lavoro, mostrano i potenti dorsi e le nodose zampe tra placche di ferro e finimenti di cuoio; il muso di un cavallo guarda sornione e pigro verso di noi. Non c'è ancora la luce mistica di un mondo che oggi Tomiolo intravede oltre l'oscurità della materia, quel senso di magia che trasfigura la natura rivelandola nella sua gioia di luce, ma la plastica possanza di questi cavalli rallegra lo sguardo con una maestria cromatica che è suscitata dal di dentro: il giallo e il rosso sono pelle, crini, zoccoli di cavallo, e di un cavallo da fatica sgonfio nella siesta, come un cavallo che pensi, con gioia e pigrizia, di essere spossato e di saper riposare.

Nell'estate '66, il pittore ha provato a rifare quei cavalli. Ne sono usciti altri. Nell'ordine di un razionalismo accentuato, i colori hanno assunto la levità dell'aria, le figure raccolgono la loro potenza in una misura cromatica che partecipa non solo dell'atmosfera interna al quadro ma dell'ambiente stesso in cui il quadro è posto, dell'intima emozione che coinvolge e spettatore e artista e immagini in una sola vitalità. Non sono i più i machenburghesi dello Scalo Farini. Nella sciroccale quiete della campagna veneta gli animali si placano come apparizioni-simbolo di una civiltà e di un paesaggio. Tomiolo ha provato ancora una volta ad essere poeta: non ha ripetuto un quadro, si è riscoperto di nuovo inconsapevole e inerme di fronte alla decisione creativa. Nel desiderio di «rifare i suoi cavalli» non ha subito la suggestione della maniera, ha lasciato fare all'arte.

Non so parlare della pittura di Tomiolo. Tento chiarire a me stesso, capire cosa suscita in me, cosa ci scopro; invento correndo dietro i miei pensieri, compongo brani di chiacchiere che facciamo qualche volta tra amici. Mi piacerebbe poter dire che l'arte di Tomiolo consiste nella pittura che fa, banalità stucchevole, che è tuttavia ciò che un uomo può coscienziosamente dire dell'arte di un altro. Ma vedo i suoi cavalli e mi sorprende l'ordine che regna nel mondo, mi affascina il colore, mi avventuro con la mente in una catena di analogie, e guardo quelle scrofe nel dorato sole della notte, e il gioioso melo tra il rosa celeste di nuvole pensate, e lo stupore composto del fucilato in un orizzonte crudelmente sereno. L'ottimismo del pittore è l'ottimismo dell'eterna natura. Il sole è la luce irradiante dei suoi quadri. Ma non un sole esterno, una luce che cade dall'alto, una barocca luce che gioca con le ombre. Il panteismo dell'uomo diviene qui l'intuizione dell'artista: il sole è nella terra, prigioniero delle cose, spessore e fragilità della materia, felicità di esistere. Questa unità tra interiore e «di fuori» esprime nel pittore la ricerca nel mondo della natura di una segreta volontà vivente: il mondo s'impadronisce della luce e risplende di questo suo possesso. Le conchiglie, le barche rovesciate sulla rena, le frutta, i pesci, i cieli e i mari celesti, le boscaglie soffuse, gli alberi fioriti, gli esseri naturali tutti, partecipano del pensiero dell'universo: dentro di noi c'è il sole.

Tomiolo usa tempere e olii come filtri, li usa con l'intelligenza della loro potenza evocatrice e l'amore per la loro bellezza materica. Conosce la loro suggestione e tuttavia sa di trarla dalle cose che rappresenta. Ha coscienza che un «suo cielo» è «un cielo», che ognuno può riconoscerlo nei colori della tela e nelle geometrie della sua intuizione perchè l'ha già contemplato in natura. Bisognerebbe dire qualcosa di più preciso e di più inerente al mestiere per illustrare il valore di questa «imitazione». Il colore di Tomiolo è il risultato di un lavoro e di una paziente speranza: le tempere venete, gli olii, le vernici, le acque ragie, i barattoli di trementina, gli acidi, le tritature, le erbe: il pittore è innamorato delle materie come delle immagini. In questo suo attaccamento al mestiere, agli strumenti, alla socialità di bottega del suo lavoro, è il cuore della sua arte. In un mondo di strumenti pronti e di materie prefabbricate, di uomini abituati ad usare più che a creare, Tomiolo è un medioevale: non c'è momento e strumento del proprio lavoro che egli non verifichi col lavoro stesso. Più che pittore di quadri, ha infatti l'amarezza di non essere affrescatore di professione, di non occupare nella società un posto che, accanto all'imbianchino e al muratore, gli permetta di essere dentro l'abitazione e gli istituti dell'uomo. Non c'è forse pittore contemporaneo che come lui senta il disagio di star chiuso, solitario, in uno studio, di dover ricorrere ad un mercato sconosciuto e salottiero, di dover usare della tela nel formato della paretina borghese, di non poter essere «uomo di bottega e di muratoria» nella civile dimensione cui l'avevano avviato il padre e la tradizione di una professione umanistica.

Franco Loi


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