Il Mondo di Eugenio Tomiolo (E.T.)

Opere Pittoriche

.: Monografia Riello :.

(1967)

Fantasia e saggezza di Tomiolo
di Mario de Micheli

Tomiolo è un pittore «indipendente». Cioè: non è un pittore la cui storia si possa confondere con la vicenda di gruppi o di tendenze. Questo però non significa che egli sia un pittore chiuso o insensibile alle situazioni storiche e culturali in cui gli anni della sua vita sono trascorsi. Significa soltanto che la maturazione poetica dei suoi sentimenti è sempre avvenuta e avviene con segreta autonomia, fuori di ogni regola precostituita e d'ogni indirizzo formale legato al gusto e all'informazione.

Per più di un aspetto si può dunque veramente parlare di Tomiolo come di un artista solitario, anche se poi il suo temperamento è tutt'altro che ostile agli incontri e ai rapporti dell'amicizia. Da questo punto di vista, Tomiolo è anzi un vero personaggio solidale, che ama il discorso umano, il dialogo sul proprio lavoro, l'intesa con gli altri. Ciò che non ama è la confusione, il sofisma, la trappola dialettica.

Non ama l'astuzia, né la scienza delle manipolazioni. Ci sono in lui delle doti di probità e di pudore assai rare, e c'è una solidità di carattere che ha in sè qualcosa di primitivo. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente per farsi un'idea di lui. Bisogna aggiungere ancora qualcosa: una fantasia che anima la sua vita, anche quando i suoi gesti sembrano i più semplici e quotidiani, i più pratici e abituali. Io, per esempio, mi ricordo come per anni se ne andasse su di una spiaggia ligure abbastanza fuori mano a mettere in sesto un grosso barco per prendere il mare e vivere navigando di costa in costa. Nessuno l'avrebbe detto, ma sotto la tranquilla efficienza delle sue decisioni e le precise nozioni di carpentiere che dimostrava, si nascondeva in realtà un fantastico Noè incalzato dalla nostalgia di una nuova Arca. Purtroppo i tempi biblici sono finiti e l'Arca di Tomiolo non è mai scesa in acqua, ma il segno di quel sogno resta tuttavia come un indice della sua personalità e dei suoi umori.

Forse è proprio da questo complesso di ragioni o di motivi che prende vita la sua pittura: una pittura che è favolosa e realistica insieme, che è semplice e immaginosa ad un tempo. Un'esistenza difficile, accidentata, con undici anni di panni militari indosso, buttato da un fronte all'altro, non è riuscita a spegnere in lui le qualità di questo carattere, di questa sua forza che cela risorse improvvise di dolcezza e d'immaginazione.

Quando fra il '36 e il '39 lo traviamo a Roma in divisa da soldato, ha già fatto qualche studio a Venezia presso la Scuola d'arte dei Carmini e il restauratore Moro, nonché all' Accademia Cignaroli di Verona. Se però si parla con lui di quel tirocinio, Tomiolo storce la bocca. Ha cioè la coscienza di aver imparato ben poco, salvo talune nozioni elementari, di antico mestiere apprese nel laboratorio del Moro. A Roma tuttavia egli è già pittore, poiché in una serie di opere manifesta chiaramente sia un particolare fervore dell'ispirazione che la capacità di fissare l'immagine con linguaggio sicuro. Basterebbe guardare la punta secca intitolata significativamente Ecatombe per rendersene conto. Si tratta di una lastra del '38: un massacro d'agnelli e di pecore, dove all'energia del segno è affidata una pietas del tutto priva di enfasi, un dolore che si racchiude nel simbolo intimamente.

Allora gli animali erano di frequente adoperati con evidente significato emblematico dagli artisti d'opposizione, cioè da quegli artisti che si rifiutavano d'accettare i falsi miti del Novecentismo. Di tale emblematismo c'è un'esplicita testimonianza in qualche testo poetico di Scipione: «Alla calata del sole una pecora - ha fatto un agnello. - E' uscito tutto di lana, col sangue - il cuore e la voce ... Le civette gridano, tutto si muove, - e l'angoscia riempie l'aria d'inquietudine». Ma c'è sopratutto nei quadri, nei cavalli di Scipione, nel Bue squartato di Mafai, nelle teste d'agnello scuoiate di Levi, nei tori infuriati di Guttuso. L'inquietudine era un segno di quel tempo nella parte migliore della cultura italiana, l'inquietudine e l'ardore per una libertà interiore, per un' espansione dell'anima.

La giovane pittura sia della «Scuola romana» che di «Corrente» esprimeva appunto questa insofferenza per ogni forma di coercizione spirituale, questo desiderio spesso vago ma sempre vivo per una verità umana più profonda, questa protesta verso il tentativo di restaurazione promosso dal regime nelle arti.

Non c'è dubbio che Tomiolo, benché isolato, benché non inserito direttamente nel movimento che si articolava tra Roma, Milano e Torino, avvertisse con sicura sensibilità i temi e i motivi che circolavano fra gli artisti più aperti di quel periodo. Di ciò sono una conferma i quadri e i disegni che vanno dal '39 al '41, quadri come La Susanna sorpresa o Il giudizio di Paride. Soprattutto quest'ultimo, dove due donne nude, in un paesaggio d'uragano, stanno davanti ad un giudice minaccioso che aizza contro di loro dei leoni inferociti. Ma anche quadri più dolci, più struggenti, come la Donna che si asciuga, una figura fosforescente dentro una natura rabbuiata, e più ancora, come Allegoria, in cui il nudo femminile coricato sull'erba, e dormiente, appare protetto da un albero armoniosamente ordinato nei suoi rami e carico di frutti. Immagini di apprensione di desiderio, di sgomento e di sogno.

E' particolarmente il clima della «Scuola romana» che agisce in questo primo periodo su Tomiolo. È un clima che si fa più greve, più drammatico e allucinato a mano a mano che la guerra procede. Tomiolo non vide allora le Fantasie che Mafai andava dipingendo in quegli anni, tra il '42 e il '45, quei piccoli quadri tragici e grotteschi in cui la farsa e la nequizia del fascismo sino rivelati con satira e sarcasmo dolorosi, ma certo alcuni suoi pezzi, come Figure del Periodo Clandestino del '46 e quell'altro dello stesso anno, Esempio, sono dipinti con spirito e con modi abbastanza vicini a quelli mafaieschi. Perfino la maniera di deformare, di raggrumare il colore ha qualche somiglianza. Ma più che altro, specie nel quadro dell'Esempio, è una sorta di spettacolo assurdo, macabro e straziante che fa pensare ad una stretta parentela con le immagini di Mafai. E tuttavia, in questi quadri, c'è qualcosa che distingue nettamente Tomiolo: il povero-cristo messo in croce, con ai piedi un teschio ma anche con la sua bicicletta, mentre sullo sfondo della città passa una folla che si nasconde sotto i parapioggia aperti, scopre infatti un'amarezza direi più circostanziata, più diretta. Il senso della miseria e dello squallore, il senso ordinario della morte in una guerra dove il nemico era soltanto armato di sanguinaria viltà o di burocratica ferocia, è un aspetto particolare dell'ispirazione di Tomiolo in un quadro come questo e in altri consimili.

Questi anni, dopo l'8 settembre, Tomiolo li passa nel Veneto alla macchia. Con la sua abilità manuale, è riuscito ad aprire una falla sul fondo del vagone dove i tedeschi lo hanno imprigionato per «spedirlo» in Germania e si è rifugiato nella sua terra. Il frutto più alto di quest'epoca sono indubbiamente i disegni: un specie di diario aspro, violento, dove egli lascia da parte ogni trasposizione fantastica per approfondire i dati di una cronaca di sangue e di prevaricazione: sono numerosi fogli, inchiostri scabri, dove la brutalità nazista ha riscontro in un disegno duro, impietoso, che non risparmia l'evidenza dei più terribili dettagli. E' l'atroce verità quotidiana di una provincia occupata da un esercito di mercenari, da una truppa a cui è dato l'arbitrio d'impiccare, sgozzare; rapinare e fucilare in massa: ecco di quali immagini è folto questo diario grafico di Tomiolo.

Questi disegni rappresentano dunque il punto più teso e risentito della rivolta morale di Tomiolo contro la violenza, ma vorrei dire che tale rivolta, anche negli anni seguenti, ha costituito e costituisce tuttora il fondo più autentico della sua ispirazione. E' chiaro che, nell'opera recente, essa non appare più con l'asprezza di quel tragico periodo d'emergenza, ciò nondimeno è costantemente presente. È presente ad esempio anche in tutta la bellissima serie delle «lepri uccise» a cui ha messo mano appena uno o due anni fa, tra il '65 e il '66. Se si vuole è una ripresa del suo iniziale simbolismo: una ripresa dolcissima però, soffusa di malinconia, di tenerezza. In Tomiolo l'animale ha sempre un significato d'innocenza e l'animale ucciso riveste sempre un implicito giudizio contro il delitto e la sopraffazione di cui è vittima l'innocenza indifesa.

Ma tutto ciò rientra nella visione poetica di Tomiolo, nella sua concezione del mondo. Forse questo generale sentimento che pervade tutta la sua opera è nato in lui fin dagli anni dell'infanzia, fin da quando, cioè, essendo figlio del direttore del mattatoio di Venezia, vedeva ogni giorno centinaia di vitelli, di capretti e d'agnelli cadere sotto la mazzata mortale del beccaio o morire col collo squarciato dal coltello jugulare. Questo è il motivo più probabile per cui l'animale ucciso è diventato nel suo lavoro il simbolo più spontaneo dell'innocenza offesa. Ma del resto l'intero itinerario pittorico di Tomiolo è popolato di animali: di buoi, di tori, di scrofe, di cani, di uccelli.

Ma anche quando questi animali entrano nella sua pittura ben vivi, si sente in essi la presenza di un amore che si pone, appunto, all'opposto della violenza.

Io mi ricordo la sorpresa che molti ebbero nel dicembre del '54 quando Tomiolo tenne la sua mostra personale presso la Galleria «La Colonna», a Milano. A quella mostra egli esponeva un grande quadro - quattro metri per due - che rappresentava un gruppo di cavalli da tiro in riposo. I «cavalli di Gondrand» dissero tutti: ed erano veramente cavalli potenti, massicci, vigorosi di petto e di schiena, proprio come quelli che un tempo si vedevano trainare per la città gli enormi carri della famosa ditta di trasporti. Ma, a pensar bene, l'emozione che dalla loro contemplazione saliva in chi li guardava era di un'altra natura: era una emozione di larga e calma potenza, un'emozione di sicura fisicità e al tempo stesso di biblica grandezza. E tale emozione si riconfermava con ancora maggiore intensità a guardare le due variazioni del Torello col "boaro" e lo stupendo Toro grigio.

In queste tele, il poco più che quarantenne Tomiolo toccava la sua maturità: maturità di visione e maturità di mestiere. Pur senza nessun riferimento specifico, queste opere ricordavano la pittura di due altri veneti, di Gino Rossi e Garbari: di certo Rossi per il senso rustico e forte dell'immagine; e di Garbari per il modo monumentale e decorativo d'impiantare le figure nell'ambiente, nonché per una sorta di «candore» e di «saggezza» spirante dai suoi «personaggi». In realtà è proprio questo, mi pare, il centro vitale del mondo poetico di Tomiolo: proprio tale sua forza gentile, tale tranquilla passione, che s'inalbera solo davanti alla distruzione della natura e dell'uomo, aspirando ad un umano Paradiso terrestre, fatto di semplicità, di rapporti veri e fondato su di un «patto d'alleanza» senza riserve mentali. I poeti hanno sempre cantato l'età dell'oro con le iperboli più sensazionali. L'età dell'oro a cui pensa Tomiolo può essere assai bene raffigurata da questi suoi sereni animali domestici che collaborano alla fatica giornaliera dell'uomo, magari dalla scrofa coricata sul fianco con le mammelle offerte all'avidità d'una banda di succhianti lattonzoli.

Oh, so benissimo che un discorso del genere rischia di non trovare spazio nella «problematica» della «civiltà dei consumi»! Ma fino a che punto poi vi è estraneo? Certo, la visione di Tomiolo può apparire come un'illusoria visione agreste-contadina, come qualcosa di anacronistico nella società della tecnica industriale, ma ciò è vero se non si tiene conto che in questa società l'uomo è minacciato nella sua unità di persona. Il sentimento di Tomiolo è dunque tutt'altro che fuori posto, dato che è proprio il sentimento dell'integrità dell'uomo al di là di una vicenda che tende ad atomizzarne la coscienza.

D'altra parte, a queste immagini, Tomiolo era approdato, come s'è visto, da ben altre immagini più dirette e tremende: immagini che in qualche modo continuarono a turbargli le tele e i fogli anche dopo il conflitto, per tutto il '46. I disegni dei Viandanti e dell'Apocalisse, sono lì a dimostrarlo: personaggi ossessivi e stragi. E' l'epoca in cui egli arriva a Milano: una Milano che vive i giorni entusiasmanti della Liberazione senza tuttavia dimenticare il terrore da cui è appena uscita. A tale data risale il suo incontro con Birolli, o con altri artisti più giovani come Chighine e Francese. Fervori, discussioni, speranze, propositi. Per Tomiolo c'è anche una lunga sequenza di esperimenti e di ricerche tecniche. E' il lato della sua probità artigianale che gli impone un particolare tirocinio di mestiere. A questa data si collocano le sue tempere: tempere di straordinaria bravura, con innovazioni sui vari modi dei maestri passati. Ed è anche il tempo di talune acquisizioni stilistiche d'ascendenza cubista, benché sia un tempo abbastanza breve e privo di eccessi. Un quadro come la Cornacchia, una tempera grassa datata al limite di queste esperienze, 1950, riassume benissimo sia le sue conquiste d'ordine tecnico che i nuovi spunti stilistici. Per più di un aspetto i risultati migliori di questa stagione sono forse le nature morte, solide e morbide, di una misura esemplare. E' anzi proprio sul filo di una successiva indagine sulla natura morta a fargli raggiungere via via una nuova forma di oggettività, che poi diventerà il tramite al suo più concreto momento realistico, quello appunto che si manifesta appieno nelle due mostre alla Galleria «La Colonna», nella «personale» del '54 e nella seconda del '55.

Parlando della mostra del '54, ho già accennato alla maturità del mestiere a cui ormai è pervenuto Tomiolo. Vale la pena di allargare questo accenno.

Non solo le immagini dei cavalli e dei torelli, ma i paesaggi e soprattutto le nature morte fornivano un esempio indiscutibile della perizia a cui Tomiolo era giunto, una perizia in cui la tecnica s'identificava al modo espressivo e quindi all'intima poesia dell'opera. Attraverso un esperto lavoro di velature, l'impasto cromatico vibrava di sottili trasparenze, che gli davano una sorta di vellutato spessore, di felpata preziosità. In questo modo anche il più deciso realismo plastico delle immagini animali o dei frutti, che un forte disegno strutturava con ampiezza, s'addolciva, acquistava un velo impalpabile e dolce di morbidezza. In tale tessitura estremamente delicata, anche i colori più accesi trovavano quel preciso punto di fusione che crea il rapporto più raffinato e sottile.

Quel gusto del mestiere in senso antico e artigiano, un gusto, ripeto, messo al servizio dell'ispirazione, è dunque una delle doti che Tomiolo ha coltivato pazientemente per anni. Non c'è tecnica che egli non conosca a fondo, non c'è materia di cui non sappia i segreti. É tale conoscenza che gli ha permesso di affrontare sia l'affresco che la vetrata istoriata a fuoco o la ceramica. Purtroppo, alcuni degli esempi migliori di questo suo amore geloso per il «fare artistico», come gli affreschi che egli portò a termine a Padova tra il '40 e il '42, sono andati distrutti dai bombardamenti o dalle truppe di guerra, ma restano quelli dell'Ospedale civile di Legnago o quello di Arcumeggia a testimoniare di questa sua qualità di lavoro. Così come, a testimonianza della sua formidabile «manualità», resta il grande Presepe in legno scolpito, oggi a Metanopoli.

Ma, naturalmente, l'aver messo l'accento su questa dote di Tomiolo. non vuol dire che s'intenda circoscrivere o limitare in qualche modo i più specifici valori della sua creazione. Tale creazione, anche dopo il '54-'55, ha avuto uno sviluppo singolare, che può far riflettere una volta di più anche su quel possibile giudizio di «primitivismo» nei riguardi della sua concezione del mondo, già riferito precedentemente. Alludo a tutto il periodo che Tomiolo raccoglie sotto il titolo «l'industria è fiorita» e che ebbe la sua prima conclusione con una «personale» nel 1961. A mio avviso la ricca serie di quadri che caratterizza tale periodo, ci scopre un Tomiolo preoccupato di un problema che potremmo addirittura chiamare sociologico. Non è soltanto il problema della metropoli moderna circondata da una siepe fumante di officine, che gli fa pensare, come in un sogno, ad una trasformazione del paesaggio industriale, mortificante e carico di smog, in una specie di giardino, con i muri delle fabbriche coperti di rampicanti e le ciminiere che buttano fuori nuvole di freschi colori, come ghirlande, festoni, arcobaleni floreali. Non è solo questo, non è cioè soltanto un «sogno contadino», in cui al trionfo della città si sostituisce il trionfo della campagna, con la prospettiva di un idillio bucolico, di un'arcadia contemporanea. Il sogno di Tomiolo è piuttosto qualcosa di zavattiniano, qualcosa che s'avvicina ai sentimenti di «Miracolo a Milano». L'«industria fiorita» è ancora un simbolo, ma un simbolo del lavoro riscattato, il simbolo dell'uomo che muta le sue prigioni in dimore di libertà e di pace. Ecco dunque come Tomiolo, dall'interno della sua visione, accoglie ed esprime uno dei temi più brucianti del nostro tempo. La sua perciò è sì una favola, ma una favola realistica, in cui la difesa dell'integrità dell'uomo ne costituisce il lievito segreto.

Questo dato della fantasia, che non distrugge la sostanza della realtà, ma che con termini traslati ne esalta il senso riposto come aspirazione ad una realtà migliore e diversa, penso senz'altro che sia una delle note dominanti dell'intera gamma espressiva di Tomiolo, quella che vibra più profonda e costante. E con ciò il discorso ritorna alle premesse iniziali. Ma vi ritorna proprio perchè lo sviluppo di Tomiolo è stato ed è uno sviluppo conseguente, fedele ad una natura e a un pensiero, fedele insomma al carattere della propria vocazione di artista. Egli, in altre parole, in tutti questi anni, ha continuato a svolgere i temi più intimi della sua ispirazione, quelli che in fondo l'hanno assillato sin dal principio della sua scelta figurativa. Ciò che è caduto è stato soltanto ciò che vi poteva essere di meno profondo, di più esteriore o provvisorio. Oggi Tomiolo, infatti, si muove con una libertà completa. Il possesso assoluto dei suoi mezzi, possesso affinato in anni di assidua ricerca, gli consente ormai una rara scioltezza, una levità di esecuzione sorprendente. In tal modo, il mezzo si riduce veramente all'essenziale, ed una «semplicità» che è sintesi fantastica dell'immagine e non pura «semplificazione» formale. Così i suoi alberi da Paradiso terrestre prima del peccato, le sue «cipolle che danzano», le sue lepri assassinate ch'egli beatifica in una luce di pungente tenerezza, rappresentano il culmine della sua esperienza: sono quadri «soffiati», dove lo stile s'annulla nell'immagine.

Io non so che cosa farà Tomiolo dopo questi quadri, ma so che questo è un risultato di sicura persuasione poetica.

Ecco dunque in che senso dicevo che Tomiolo è un pittore «indipendente»: nel senso di un pittore autonomo, che va per la sua strada, seguendo il filo delle sue immagini e delle sue preoccupazioni senza lasciarsi impressionare dalle «oscillazioni del gusto ». Gli basta il consenso di una verità umana e poetica che egli porta con sé e che sa ritrovare, per intima corrispondenza, negli altri: nella natura, negli animali, negli uomini. Solitario quindi nella propria autonomia creativa, ma solidale nei suoi rapporti col mondo.

E questo, in fondo, è l'unica cosa che veramente gli sta a cuore: non tanto l'essere collocato nel paradigma di una «corrente» o di una «maniera»; quanto il sentirsi vivo dentro la libertà dei propri sentimenti e della propria vocazione a dipingere. É un privilegio difficile oggi, ma Tomiolo se l'è saputo conquistare. E quel che più conta, dimostra di saperselo conservare: con vantaggio per sé e per le ore che ogni giorno trascorre davanti al suo cavalletto.

Mario de Micheli (Legnago, 1967)


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