Il Mondo di Eugenio Tomiolo (E.T.)

Opere Grafiche

Da CATALOGO DELL'OPERA GRAFICA DI Eugenio Tomiolo 1930 - 1971
segue prefazione critica di Raffaele De Grada - Milano 1971

(M. R. Tabanelli)

Autoritratto con paesaggio, 1930 - 111x132
Appeso, 1944 - 245x305
Streghe, 1971 - 147x204
Polipo, 1968 - 145x196
Tre figure, 1949, 108x80
La rivolta dei cornuti, 1946, 108x81
Autoritratto, 1944, 83x110
Ritratto del poeta Beduski, 1938, 88x138
Seppia, 1968, 125x163
Caffè da fuori, 1958, 237x166
Scrofa con lattonzoli, 1955, 182x116
Paesaggio, 1965, 218x160
Siesta, 1957, 178x81
Questo è l'uomo, 1936, 56x99
Canestro di pesci, 1955, 98x119
Cavallaccio, 1954, 123x168
Invio, 1950, 163x132
Cacciatore alla posta, 1949, 108x167
Sauna, 1950, 177x236
Tetti, 1950, 227x137
Periferia, 1957, 177x82
Marciapiede, 1958, 116x189
Lui fa i numeri... , 1959, 197x147
Finestra con uccello, 1959, 245x173
Industria fiorita 5, 1960, 190x118
Industria fiorita 6, 1960, 190x118
Nudo, 1958, 177x227
Cavallo stanco, 1956, 148x141
Prog. vita in 10 tavole - tav. 1, 1960, 136x178
Industria fiorita 2, 1959, 148x195
Prog. vita in 10 tavole - tav. 2, 1960, 136x178
Inizio di un racconto, 1960, 118x192
Paesaggio con cacciatore, 1960, 194x118
La visita, 1960, 138x178
Crocefisso, 1960, 67x148
Risacca, 1963, 158x115
De rerum natura - tav. 3, 1964, 219x158
De rerum natura - tav. 1, 1964, 217x156
L'asse del mondo (da Laguna), 1968, 146x196
De rerum natura - tav. 2, 1964, 217x156
Streghe, 1971, 147x204
Figura, 1960, 218x160
Paesaggio n. 1, 1963, 218x160
Cielo laguna (da Laguna), 1968, 146x196
Invasione, 1965, 218x158
Cavallo selvaggio, 1967, 122x163
Madre, 1968, 119x168
Marciapiede, 1968, 119x168
Giardino, 1968, 120x169
Trasformazione, 1968, 118x169
Due figure, 1968, 120x169
Storia del doge, 1968, 119x169
Due pesci, 1968, 125x160
Scorze, 1968, 125x163
Volo, 1968, 125x163
Frutta, 1968, 122x162
Cipolle danzanti, 1968, 116x182
Si redime la terra, si fondano le città, 1939 - acquaforte su rame, 489 x 333

Si redime la terra, si fondano le città, 1939 - acquaforte su rame, 489 x 333
Con questa acquaforte Tomiolo partecipò alla XXII Biennale di Venezia nel 1940. La lastra fu in seguito distrutta dall’artista. Non esistono esemplari.



Pochi artisti della qualità di Eugenio Tomiolo hanno fatto meno chiasso di lui. Nessuno si è mai incantato di lui e nessuno lo ha mai troppo contrastato. Si può dire molto della sua pittura, ed è stato detto per esempio nella monografia di Mario De Micheli e di Francesco Loi. Ma si dica di lui come pittore o come incisore (in tal senso mi appresto a parlarne), sempre si dovrà partire dal disegno, perché Tomiolo è un disegnatore nato, nel senso antico del termine (che non ha nulla a che fare col concetto utilitario di designer, tutta un'altra cosa).

Tomiolo viene dall' arte applicata, dal ferro battuto e dall'incisione su metallo. È li che ha imparato l'importanza e l'uso della materia e la differenza che esiste tra la materia e l'altra. Cosicché ha capito bene come ogni soggetto richiede non soltanto un diverso linguaggio, ma anche una diversa tecnica espressiva, da collaudare con molta pazienza e senza presunzioni avveniristiche.

Questa origine dall'artigianato (è stato anche restauratore) del veneziano Tomiolo, ci dà anche una preziosa indicazione sul suo carattere di uomo. Se Tomiolo non ha avuto tutta la fortuna che si meritava e se le sue opere non sono ancora disputate dai musei, è anche perché egli ha sempre vissuto con una grande semplicità, come gli artisti dei vecchi tempi. Ripetendo i suoi soggiorni sulla Riviera Ligure (a Riva Trigoso) invece di farsi la «villetta », si è adattato un vecchio barcone a studio. In rutta la sua vita ha vinto soltanto qualche premio. Amando la natura e la realtà degli uomini, non è mai stato un organizzatore di se stesso. Sempre invece pronto all'avventura, che egli sogna con esaltazioni ancora infantili, come quando voleva girare le coste con un vecchio «leido» ligure. Da quando lo conosco, mi ha sempre impressionato per la sua innocenza. Cominciò ad essere con noi subito dopo l'epoca di Corrente. Come vedremo Tomiolo era però geloso della sua autonomia, tendente ad assumere a simbolo le ispirazioni dalla vita concreta. Una passione per il simbolo che l'ha portato anche all'astrazione, per quanto la sua scelta primaria sia stata chiaramente figurativa e realistica. Ma l'astrattismo di Tomiolo non è stato come per tutti gli altri, il tallone d'Achille della concessione all' Accademia di moda. Naturalmente egli non ha assistito indifferente a tutto ciò che è avvenuto in questi anni, specialmente quando una nuova esperienza in corso sollecitava la sua fantasia.

Eugenio Tomiolo nacque a Venezia nel 1911, ma ancor giovane si trasferì a Legnago. iniziando a conoscere artisticamente gli aspetti delicati della provincia veronese. Purtroppo, come molti altri della sua generazione, Tomiolo per troppi anni - undici – ha «servito la patria» mobilitato anche su vari fronti di guerra. La sua prima puntasecca (fig.1) ci presenta una testa risorgimentale su fondo di campagna dove galoppa un cavaliere. Se si pensa che questo « autoritratto » è stato inciso nel 1930,si vede bene come esso si distanzi da quello che era lo «stile» prevalente in quell'epoca. Confrontandolo con quello all'acquaforte del 1936 (fig. 3) si sente che in mezzo c'è stato un volonteroso apprendistato, compiuto qua e là, alla Scuola dei Carmini a Venezia, all'Accademia Cignaroli di Verona e nello studio del restauratore Moro. Un legame, sia pur labile, con l'insegnamento accademico esiste nell'Autoritratto del '36, inciso quando Tomiolo è già militare, a Roma. Dove mobilitato per la guerra d'Etiopia, ritornerà nel ' 37, per restarci fino al 1939.

Quelli, si sa, erano gli anni d'oro del secondo tempo della Scuola Romana, dominata ormai, dopo gli esordi con Scipione, la Raphaël e Mazzacurati, dalla fiera e dolcissima autonomia poetica di Mario Mafai. Anche se non ci fu un incontro diretto di Tomiolo con Mafai, c'incuriosisce scoprire i motivi dell'evoluzione di Tomiolo in quegli anni romani. Vediamo, partendo dal segno inquieto dell'acquaforte (n. 2 che rappresenta una specie di «crocifissione dell' ape» (ed è vero che gli animali tormentati assumevano a quei tempi, com'è stato notato anche a proposito di Tomiolo, un significato simbolico del martirio antifascista), come si possa riconoscere una suggestione «romana» nell'incisione di Tomiolo. L'acquaforte n. 3 non indica nessuna predisposizione in questo senso. Essa fa parte semmai del clima bartoliniano (Luigi Bartolini è stato uno dei maestri dell'acquaforte dal 1930 al '40). Nella puntasecca (n. 4) un bel disegno, ancora «provinciale», che ci rimanda alle prime esperienze dell'artista. Invece dall'acquaforte n. 5 il segno cambia ed entra proprio nel clima scipionesco (fortemente accentuato nelle acqueforti nn. 15 e 16) di piena revisione del segno duro e primitivo del Novecento verso sottigliezze decadentiste, specialmente adatte ad esprimere intime mutazioni nella psiche e nella fantasia. In quello stesso periodo il disegno di Cagli, e dapprima anche di Guttuso, indicava, in. modo più eloquente ma non dissimile, la stessa intenzione provocatoria nei confronti della tradizione grafica novecentesca.

Lo stesso fenomeno si riscontra nel disegno di Tomiolo del periodo, ma non così acutamente come nell'incisione.

Allora Tomiolo, in questi anni tipici della sua formazione, è stato tutt'altro che chiuso alle tendenze rinnovatrici del periodo, che si sono poi condensate nel movimento di “Corrente”.

Dei rapporti di Tomiolo con “Corrente” si è sempre parlato. Nel campo dell'incisione si potrebbe un po' frettolosamente stabilire subito un confronto tra la serie (mai completata) delle incisioni a tema (Il pittore, Il poeta, Questo è l'uomo, Il cattivo critico) e quelle, però più illustrative, di Arnaldo Badodi press'a poco dello stesso periodo. Anche qui, non si tratta di vassallaggio dell'uno o dell'altro. Si sviluppa allora un senso più acuto e mordente della illustrazione, che dal racconto veristico o dall' annotazione stilizzante, passava a contenuti mordenti lo stato di abiezione e di schiavitù in cui versava l'Italia di allora. Non si capirebbe infatti l'eclettismo stilistico che distingue il Tomiolo di quegli anni, indipendentemente dalle sue qualità (ved le incisioni nn. 11, 12, 13 che appaiono come un «ritorno a casa», con quella nostalgia che la vita militare instillava nel giovane di quei tempi), se non guardassiimo le incisioni dal punto di vista dei contenuti ai quali volta a volta Tomiolo piegava le sue qualità di disegnatore.

Di fronte alla realtà della guerra imperialista di Mussolini, Tomiolo, come tanti altri intellettuali della sua generazione, era diventato antifascista. Un antifascismo ancora generico, che era soprattutto aspirazione alla pace e rivolta contro la dittatura stupida e ottusa. In questa chiave di protesta sociale e di montante ironia sono da guardare le incisioni nn. 14, 40, 41 (belle come il disegno contemporaneo L'ecatombe, simbolo dei sacrificati nella lotta tra i potenti per la contesa del potere dalla quale nel 1967 si ispirerà per un'acquaforte), e la 53. Siamo ancora in un filone di sentimento, lo dico con tutto il rispetto per questi documenti di arte sottile e di acuta sensibilità, tutto sommato piccolo borghese. Non c'è ancora l'empito che è sempre determinato dall'inserimento dell'individualità nel fattore corale della rivoluzione, come intanto si andava delineando in altri documenti dell'epoca. Soltanto più tardi, dopo l'8 settembre 1943, Tomiolo diventa un registratore impietoso e rude della ferocia del tempo. Allora l'artista si muoveva ancora in quel clima affettuoso che precede le grandi scelte e che denota anche momenti d'evasione nel contesto di una complessa preoccupazione di fronte al problema di fondo, essere o non essere come artista.

Ed esistevano realmente, in tutta la loro durezza, i motivi di preoccupazione. Tomiolo non aveva fisicamente il modo di un sereno, normale avviamento al mestiere. Lo stato continuo di mobilitazione militare gli dava poco spazio al lavoro, per quanto egli approfittasse delle sue possibilità fino in fondo. Si pensi che fu durante un congedo che egli eseguì affreschi per due cappelle funerarie (a Legnago: la Corradini e a Padova: la Bragadin) e un altro affresco per la chiesa del collegio salesiano di Porto di Legnago. Tomiolo anche più tardi si esercitò con successo nell'affresco e nel mosaico; e come lo avrebbe fatto senza un lungo tirocinio nel disegno e nell'incisione, a lui cosi congeniale?

L'andamento di grande composizione si presenta già nelle incisioni nn. 17, 18, 19, 30, 48, che si distaccano dall'annotazione poetica individuale per un empito compositivo e che, ben oltre i richiami possibili ma superficiali a De Chirico e a Carena e anche a Cagli, possono essere considerate come studi originali per impaginazioni vaste e definitive. Eppure la preoccupazione del «mestiere» e del far grande non limitò mai lo stimolo sincero e autonomo di Tomiolo, che proprio nell'incisione e nella «sorpresa» varietà dell'insieme redige il diario dei sentimenti di quegli anni cruciali.

Qual'è infatti il senso fondamentale che ricaviamo dalle incisioni di quegli anni? È l'aspirazione di fondo di un realismo contadino, un amore ai contenuti popolari, non populisti, nei quali vedo un'anticipazione del realismo degli anni Cinquanta (nn. 20,21,22,23,28,29,31,33), una riduzione in termini personali delle occasioni più sincere. Qualcuno ha creduto di trovare in questo soggettivismo, che è certo una delle costanti di Tomiolo, un suo limite rispetto alla storicità dell'espressione. Ma senza un dialogo a tutti i livelli con i contenuti popolari, senza l'ispirazione d'innocenza che può venire ora da una contadina che sferruzza (n. 24) ora da un bel seno di donna (n. 27), ora da momenti di sosta di commilitoni (nn. 29 e 52), non si può accedere a visioni corali, che risulterebbero pura retorica. Si deve a questa costante autenticità di Tomiolo la sicurezza della sua autonomia di espressione sempre meno debitrice a modelli che egli del resto conosceva benissimo. I suoi «incontri» stilistici (con Garbari p.e. nel Miracolo di Lazzaro, n. 25), con Zancanaro (n. 51), ancora con Scipione (n. 56) sono puramente occasionali o meglio determinati da quel clima comune di nuova libertà espressiva che intanto è andato realizzandosi in Italia.

Questo fondamentale filone realista di Tomiolo è tuttavia pervaso fin da quegli anni da una originalissima vena fantastica. Non potrò mai più guardare le statue dei Tetrarchi a S. Marco senza pensare all'ironia sottile di Tomiolo (n. 26) che nel 1938 sapeva così sorridere delle «romane» dittature. L'ironia lievita in modi inconsueti nei suoi «capricci» del tempo (L'uomo primordiale, n. 34, Pincio 38, n. 35, la n. 36 e le sue illustrazioni per il poeta Beduski). Era lo stesso artista che contemporaneamente segnava di forte realismo opere come la n. 11, la 12, la 32, gli autotratti e ritratti nn. 42, 43, 45, 54, 55 e gli altri di cui ho detto.

Per quanto Tomiolo sia un artista difficilmente periodizzabile, si deve notare uno stacco stilistico nelle sue incisioni che potremmo definire della Resistenza, dal 1943 in poi. Si ha come l'impressione di uno che divaghi poeticamente in un bel giardino. dove il richiamo anche aspro alla realtà assume tuttavia toni di fantasia consolante e che si trovi di punto in bianco di fronte a una tragica roccia nibelungica. Il contatto è immediato e assume una a lui insolita fissità monumentale (nn. 57, 60, 62. 64, 65 in particolare, della bella serie dal n. 57 al n. 68, che ci tiene col fiato sospeso).

Qui la protesta dal simbolismo animale, che fù in sostanza il contributo personale di Tomiolo alla cospirazione di Corrente, cede di fronte alla rappresentazione cruda dell'atroce realtà di «impiccagioni» (n . .58), di «assassinii in carcere» (n. 60) e anche dei «colpi» partigiani (n. 62). Ma questa breve storia, perché tutto si avvolge nella sintesi di poche scene, non è soltanto cruda realtà, raggelata oggettivamente. C'è sempre una commozione, una specie di tenerezza perfino, che si eleva per esempio in quella bella composizione che è L'ospite, cioè l'intellettuale accolto al desco contadino oppure nel Bambino dietro la porta dove il tragico è soffocato, ma perfino nello straziante Perché si aspettarono inutilmente quella sera (n. 68).

Altre sequenze ispirate alla Resistenza ci hanno dato emozioni consimili. Per certi aspetti questa di Tomiolo è la più vicina a quella di Birolli «Italia 44». L'una e l'altra del resto sono state segnate trattenendo il fiato per l'emozione, nel vivo della vicenda, in campagne assai simili sia come geografia sia per i fatti che vi si svolsero: Birolli nel Lodigiano, Tomiolo nel basso Veronese e nell'alto Ferrarese. Queste acqueforti rappresentano un raro incontro tra le due componenti che nell'arte moderna, e anche in quella di Tomiolo, tendono generalmente a divorziare, la mente e l'anima. In quei mesi Tomiolo aveva compiuto il piccolo miracolo di aver restituito in se stesso ciò che i fatti sembravano aver per sempre distrutto, l'unità dell'uomo. Propriamente, Tomiolo è pittore, disegnatore, incisore con attività continuativa, ed è anche conosciuto e apprezzato, soltanto da dopo la guerra. Sacrificato per undici anni, come ho detto, dalla vita militare e dalle vicende di guerra, senza che ciò lo abbia portato alla dispersione, perché nel '44 ormai la sua formazione era compiuta, Tomiolo apre un nuovo corso proprio alla fine della guerra, che in questo volume è ampiamente documentato.

Da questo punto s'impone un rapporto tra l'opera grafica di Tomiolo e la sua opera pittorica, dove si stabilisce un crescendo di poesia sottile. Sono gli anni in cui Tomiolo si stabilisce definitivamente a Milano e s'incontra con l'ambiente, allora eccezionalmente vivo, degli artisti milanesi.

Anche in questa fase, nonostante che la formazione sia compiuta, ci troviamo di fronte a una grande varietà di esperienze, tra le quali dobbiamo riconoscere alcune componenti fondamentali. Prendo qualche esempio a titolo d'orientamento.

L'acquaforte-puntasecca n. 72 ci presenta un «funerale». Una casa isolata in mezzo alla campagna. La casa non sarà più abitata. Ormai il carro funebre è la nuova provvisoria dimora, che va, nella campagna, tirato da due cavalli gualdrappati. Ma, guarda caso, la bara si è scoperchiata, il coperchio è rimasto sul carro e la cassa apertasi ha lasciato cadere il morto che è trascinato per un piede attaccato a una corda del carro. È una scena di macabra ironia, che scopre di Tomiolo un lato che avevamo già constatato nella sua opera precedente, ma qui in modo palese. L'accostamento è più con certa letteratura del dopoguerra che con altri esempi di arte figurativa e non è occasionale. Si ripete negli «assurdi» delle nn. 75, 76, 79, 81, 84, 86 e via dicendo. Le ultime indicate sono del 1946.

Che è avvenuto? Tomiolo è evidentemente suggestionato da curiosità di ordine psichico alla cui indagine lavora come uno scienziato, per nulla impedito di avere nel lavoro artistico come una vita privata, un vero sdoppiamento, testimoniato dai contemporanei disegni incisi di annotazione realistica. Siamo nel momento in cui la vita ritorna «normale» e Tomiolo non sottovaluta per nulla la sua necessità di conquistare un «mestiere» sempre più provetto (alcune prove del «mestiere» già raggiunto, come l'affresco di Padova, sono andate distrutte dalla guerra). Ma Tomiolo sente anche che la guerra non è stato soltanto un brutto sogno, che ritorna ogni tanto come un incubo (n. 87, n. 96, n. 98). La guerra l'hanno fatta gli uomini e gli orrori sono stati compiuti dagli uomini. Gli uomini sono ancora malati. Qual è il serpentaccio che li avvinghia e che noi, badando solo agli effetti, chiamiamo comodamente violenza, sopruso, atrocità o, nell'ancor più comoda accezione fisica «sgherro» (n. 100) «crocifissione» (nn. 111, 112) «istrione» (n. 116) e magari anche sesso e conflitto di scioperanti, casa chiusa e «vendetta dei caproni» (n. 174) e folla di marciapiede sovrastata da conflitto di angeli e demoni (n. 177) e così via? C'è tutto un filone dell'opera incisa di Tomiolo che può essere letta in questa chiave.

In Tomiolo, nell'eclettico, pacifico, «autonomo» Tomiolo e tutta la sua letteratura, anche la più elogiativa, su di lui, si svolge essenzialmente su questa falsariga si è piantata una idea fissa: il male sta nella corruzione dell'intelletto, il chiodo è nella mente, mentre i sentimenti rimangono puri, intatti nella loro verginità iniziale e chiedono alla vita di poter riemergere dalla belletta che questa società corrotta nella mente ha imposto sopra di loro come una lastra tombale che la porterà alla perdizione. Il poeta chiede di nuovo innocenza, ma per farlo gli basta la contemplazione di ciò che gli resta di vero, sempre meno, sempre più ridotto e addirittura considerato anacronistico. Il poeta ha due armi intramontabili: il sogno e l'ironia, il sogno è l'iperbole dell'innocenza, l'ironia è la camicia di forza del delirio.

Con l'una e l'altra arma, sempre concentrate nel bulino e nella puntasecca, caricate dell'acido della lastra, Tomiolo tenta un recupero dei valori dell'innocenza e, come primo segno della lezione, rifiuta la formula astratto-intellettualistica, espressione-effetto di una società malata, e si appella all'immagine, un'immagine che può arrivare al massimo della delicatezza nel senso del sogno innocente (n. 180) e al massimo dell' ironia fantastica (n.181).

In quindici anni di attività incisoria, che vanno press'a poco dal 1945 al 1960 e quanto lavoro contemporaneamente nella pittura, nel mosaico - i due mosaici per l'Ospedale di Legnago - e perfino nella scultura - il presepio in legno inciso per la colonia ENI a Borca di Cadore -) la componente sopra descritta domina l'opera di Tomiolo. Soltanto il carattere schivo di uno degli artisti meno commercianti di se stesso che io conosca, ci ha sottratto fino a oggi all'analisi un fatto così caratteristico negli anni che intanto sono passati.

Intanto Tomiolo non era insensibile, come per altro verso non lo era stato nell'anteguerra, al divenire e al trasformarsi della nostra società, del nostro modo di vivere. La tendenza poetico-idillica, la più appariscente in Tomiolo, che si esprime specialmente nei suoi studi d'animali, frequentissimi anche in questo volume, non ci può nascondere la sua sensibilità sociale. Da incisioni tipo: Lo sfratto (n. 71), Città ritorna (n. 94), Caffè da fuori (n. 136), Donna in vetrina (n. 137), Periferia (n.167), gli studi di Milano (nn. 170-73), un'interpretazione moderna della nostra città, Gasometro (n.182), che ha un accento sironiano circa la desolazione del paesaggio industriale, si stabilisce una dialettica con l'idillio campestre e animale di cui è fitta l'opera di Tomiolo in questi anni. Sembra che l'autore ci presenti due volti coesistenti del nostro tempo, da un lato l'utopia tecnologica, che dà più incubo che felicità, di cui però Tomiolo non sottovaluta il valore di trasformazione e di progresso (non c'è per niente posizione nichilista, luddista, in lui), dall'altro il sogno agreste, la nudità innocente, l'osservazione sempre amorosa, anche se non sempre strettamente realistica, del mondo animale, che tocca momenti particolarmente felici nella n. 97, nella serie degli «uccelli» (nn. 103-108), nella n. 109 e altre.

A un certo punto Tomiolo risolve, a modo suo, questa costante dialettica. E' una specie di sintesi, una ipotesi tomioliana di come potrebbe essere, e come bello, il mondo di oggi: egli vede a un tratto l'«industria fiorita» (nn. 187-192). All'improvviso i fumaioli diventano tronchi d'albero sui quali rami e convolvoli si annodano in esuberante crescita felice. Tutte le vecchie antipatie per la caserma, per gli appartamenti stretti e banali delle metropoli, per la fabbrica, la folla ecc., ecc., traboccano in una visione felice, in una immagine di sottobosco che ha vinto sulle fortezze degli uomini moderni. Siamo come di fronte a quegli spettacoli di rovine belliche medioevali sulle quali ormai sono cresciuti i rovi del tempo e della pace. Un curioso modo di ritornare all'età dell'oro restando nel mondo industriale moderno.

Ancora una volta le direzioni sono due (ma non è del resto la stessa cosa nell' animo di tutti noi?) quella del desiderio e quella della realtà. Ciò si avverte direttamente nel Progetto per la vita in dieci tavole (nn. 193-199), una sorta di testamento della vocazione di Tomiolo. La morte e la vita in perenne alternativa. Prevale però la follia di un segno che sa di vegetazioni e nascite e amori, per quanto ossessionati dalle presenze degli scheletri.

Ma dal 1960 in poi pare che abbia la meglio una visione rasserenante. Risorge, in un segno sempre pili fantastico, la felicità dei rebus di natura (n. 202). A distanza di pochi mesi dal segno complicato del Progetto per la vita in dieci tavole, ecco ripetere lo stesso tema in dieci acquetinte. Nonostante un andamento umoristico (alla Rognoni, per intenderci) Tomiolo sente appieno il compito di tracciare un'allegoria della vita. Potrebbero essere, queste tavole, un'illustrazione contemporanea di un libro delle «Grandes heures» medioevali, tracciate dal monaco laico Tomiolo sacerdote della vita. Jolly (n. 217), una specie d'illustrazione di «A nous la liberté » di René Clair, potrebbe benissimo far parte del ciclo.

Ma forse a questo punto Tomiolo sente che egli rischia di ripetere immagini chagalliane, quasi tradito dalla ormai perfetta abilità di mano. La coscienza del pericolo di poter diventare un «maestro» (e la moralità di Tomiolo lo porta a temere il mercantilismo contemporaneo) gli fa tentare un'esperienza che sommariamente potremmo definire «astratto-surreale». Le tracce esistevano già nella sua opera precedente, ogni volta che Tomiolo affrontava di petto la poesia della vita. Ma le sei tavole Appena uditi (nn. 219-224) all'acquaforte-acquatinta sono il momento topico di un passaggio difficile, che non esclude affatto la continuità realistica di tante altre incisioni ma che si impernia in un inseguimento dei fantasmi che stanno dentro e oltre le cose.

Mi spiego questo processo pensando che non si può sempre protestare e che, come motivo di consolazione, non basta più la mera contemplazione dell'apparenza naturalistica. La registrazione del vero, nel momento in cui la passione non infiamma, può diventare un lavoro di contabilità. Alla fine non interessa più. Allora la salvezza sta o nell'ironia (bisogna diventare un poco cattivi, vedi la n. 253, la n. 255, la drammatica serie degli «impiccati», nn. 256-259, la n. 260 e altre), oppure nell'elevarsi dalla cronaca all'analisi del primigenio comporsi delle cose, al primo formarsi delle cose (le incantevoli tavole ispirate al De rerum natura lucreziano, nn. 229-233), al segno zen che ha il fascino di chi traccia per la prima volta una scrittura di movimenti, presenze, apparizioni. Tomiolo le può poi intitolare figure, paesaggi, nature morte, ritmi, giardini e perfino dar loro un titolo simbolico. Non importa. L'artista ha l'essenzialità propria di chi ci fa scoprire qualcosa di inedito, che perciò non ha nessun bisogno di emozioni supplementari, necessarie invece a chi narra il risaputo. Il tessuto grafico all'incontro si fa sapientissimo, fino a quei deliziosi ricami che sono Alga (n.275), Elementi (n. 276), Volo (n. 278), Seppia (n. 280).

Ecco, qui mi preme di sottolineare un punto fermo. Quand'è che nell'arte figurativa l'astrazione non ha senso? Sembra lapalissiano, eppure l'equivoco è continuo. L'astrazione non ha senso quando è un a priori della cultura, quando è il segno ignorante e presuntuoso di chi non ha niente da dire e che non sa cosa dire e si riempie la povera testa di segni presi in prestito alla cultura altrui, da lui profanata e gettata nel fango. Ma quando, come in Tomiolo, ed è un punto d'arrivo la serie «Laguna» (nn. 287 - 357 ), l'astrazione viene da un lungo processo di conoscenza delle cose (le belle incisioni contemporanee stanno a provarlo), io considero questa astrazione una grande conquista di essenzialità, che è frutto di una provetta cultura, fatta di conoscenza della natura e del lavoro degli altri uomini sulla natura.

L'astrazione è quindi quanto di meno spontaneo si possa immaginare e in tal senso, in un lungo processo dalla spontaneità alla cultura, vedo la storia di Eugenio Tomiolo incisore. Perciò quando egli ritorna a narrare per immagini compiute (vedi quella specie di autobiografia ideale della sua fantasia che è la serie recentissima «Civiltà», nn. 376-379), rispondendo alla sua fondamentale natura di figurativo, Tomiolo ha una sincerità non più spontanea ma conquistata. Il patrimonio del segno essenziale, «astratto », ha fruttificato. E qui mi basterebbe semplicemente rimandare il lettore alle più recenti perle della raccolta, a quel brano in cui sento un ritmo marino montaliano che è Polipo, finestra (n. 358), alla litografia (una delle pochissime) Storia (n. 365) in cui trovi tutto, vita e morte, in un segno che sembra volo d'uccello senza meta e ancora in quasi tutte le tavole di «Civiltà», che andrebbero tutte decantate ad una ad una.

Ho detto prima che è come se la fantasia di Tomiolo si personificasse e narrasse la propria vita. Di quante macchie invisibili si sostanziano i sogni impossibili di Ferie, quante piacevolezze sono sacrificate alla monumentalità ironica dell'immagine in Naturalista. I temi ironia-poesia di Tomiolo ritornano tutti: Il salto, un convito dell'epulone sovrastato dal cavallo di Caligola, l'ex-voto (Avvocata nostra), quegli inni alla libertà del sogno che sono «I teatrini», l'etica sociale de I nomadi, le dolci eresie di Così fanno, Arcangelo conciliare, Ultima Diana e infine quell'alta immagine che è Argonauti.

L'opera grafica di Tomiolo qui tutta riprodotta è una scoperta, di un livello sempre cosi sostenuto per cui basta avere una coscienza del valore europeo dei nostri artisti, per capire che ci troviamo davanti a qualcosa che conta veramente.

Raffaele De Grada


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